Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
È quanto era stato scritto con larga grafia di monòcolo su di un cartiglio che era disperso come tanti altri nei cassetti del Vittoriale e fu poi ritrovato. E l’arte dei fiori nel Giappone non sembra essere di origine locale ma pare provenire attraverso successive mutazioni dall’arte della calligrafia indiana. Si può leggere questo, e non senza sorpresa per i tortuosi itinerari a volte scelti dalle forme della bellezza, nei taccuini di Paul Morand. Questi era un diplomatico francese il cui spirito di osservatore attento e colto ha avuto la possibilità di disporre d’una lingua dal grado di chiarità straordinario nella quale trasfondere le proprie impressioni. Vi è stato chi con cognizione ha scritto Ce qui n’est pas clair n’est pas français. Il legato d’ambasciata pare seguire l’esempio di un suo illustre predecessore dell’ottocento, Arthur de Gobineau, che per anni era stato in missione nell’Oriente dove aveva composto trattati linguistici e poi bozzetti di novelle e poemi, in margine ai rapporti che doveva redigere per il ministero di Parigi. E non è un caso che sia Morand a scrivere alcune delle più pertinenti prefazioni alle ristampe che qualche raro editore ha voluto fare delle opere dell’inquieto e sensibile autore delle “Nouvelles Asiatiques”. È dunque in un volume di note di viaggio del Francese che leggo uno schizzo efficace ma pure esauriente sull’uso antico di decorare i vasi con mazzi di fiori che il diplomatico d’oltralpe aveva conosciuto direttamente in Giappone da un anziano maestro di quell’arte. Trascrivo e riassumo in breve quanto ho letto, che può valere così di primo ausilio per chi desideri inoltrarsi in uno studio effettivo dell’arte in questione.
I precetti raccolti e condensati dal Morand sono i seguenti:
si cerca di disporre nel vaso pochi fiori alla volta ponendo cura a che la mano non venga ad appaiare fiori di specie che in natura si ignorano.
Nella composizione va lasciata dell’aria fra gli steli in modo che il mazzo di fiori che ne risulta sia un’armonica architettura costituita da vuoti e pieni.
Si disegna con dei fiori nello spazio e però si bada a non si cadere nei mescolii di foglie né a dare valore alle facili simmetrie.
Per i colori, questi vanno a comporsi in graduati accostamenti di sfumature da dove però la monocromìa sia evitata e i toni forti delle tinte vengano concentrati nel basso della composizione floreale. Il sommo si tiene, al contrario, molto chiaro.
Sono precetti che per quanto riguarda la pura composizione dei fiori appaiono semplici. Gli avvertimenti dell’arte non sono però completi se non vi si aggiunga un insegnamento trasmesso da un maestro. È l’anziano e nobile Oda Yura Kusai a comunicare all’autore francese sulla propria lunga esperienza e questi ne trascrive alcuni capisaldi sul suo taccuino; la materia ed il colore del vaso non devono distogliere dai petali l’attenzione di chi contempla l’opera e devono agire in armonia con la stagione; ovvero si sceglie il vaso solo dopo aver visto i fiori che ci si trova a comporre. Ecco un esempio della prosa cristallina del diplomatico nel descrivere la meraviglia provata al vedere una composizione floreale dell’ammirato maestro nipponico:
les hautes branches arrêtant son jet se recourbaient dans un mouvement ravissant. Les fusées verticales des iris conservent leur longuer de tige
e i moti di rami che si gettano di slancio in alto e poi reclinano incurvandosi, i fiori affusolati degli iris che si tengono in equilibrio verticale appaiono come disegnati.
Da classico qual era, Céline lo definiva un “modello rigoroso di scrittore”, Paul Morand dà infine una nota succinta intorno la storia. Sono state le antiche tele di pittori naviganti del XVII secolo, olandesi e francesi e di poi gli album di viaggio dei botanici esploratori a dare gli avvisi di quest’arte dell’impero del Sol Levante in Occidente. Il diplomatico francese, che aveva visto questi primi saggi d’imitazione, li descrive anche con l’aggettivo naif; la qual cosa ce li fa immaginare un poco puerili nella raffigurazione pure se animati da buona volontà documentaria, come avviene per certe illustrazioni nei codici medievali.
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