Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Monte olimpico Fuji
Se queste brevi linee sono state premesse da una lunga e ammirata contemplazione dei paesaggi e delle visioni del Fujiyama dei due sommi del dipinto e della stampa giapponese, Hokusai e Hiroshige, esse traggono però spunto dall’opera minore o dall’opera minima loro e di altri maestri di minor fama o rimasti anonimi.
Lo studio completo della tecnica di tali maestri e dell’itinerario per apprenderla e portarla fino alla perfetta forma di cui ci si avvede nei bozzetti calligrafici e negli schizzi di abilità effettuati con un unico tratto di pennello senza che lo stesso mai distacchi le setole dal foglio non è forse una cosa facile. È infatti necessario appoggiarsi, in questo caso, anche ai dotti volumi, spesso non così in vista, di orientalisti che siano pure esperti tanto in calligrafia quanto in pittura e che abbiano avuto un fecondo contatto coi pittori nipponici, ovvero siano stati in grado di potersi esprimere in giapponese in modo da riuscire ad assimilare in vivo gli insegnamenti della tradizione e le variazioni di tecnica specifiche di questo o quel creatore direttamente ascoltando la voce del maestro e frequentandone la casa e lo studio, ricevendone infine dalla sua mano le correzioni non appena si siano presi fra le dita i pennelli. Una cultura e un’arte innestate ad alto grado su di una tradizione antica e molto sentita non si prestano con facilità ad esser riassunte entro le pagine di manuali divulgativi.
Qui è dunque solo argomento di alcune considerazioni che se sono nate dall’ammirazione dei dipinti giapponesi di cui si è detto, pure si circoscrivono a quell’opera minima fatta di piccoli disegni appena abbozzati, dati di getto, da un’intuizione primeva e senza apparente studio alcuno, che fioriscono sulle carte di pittori nipponici.
Come scritto poco sopra, in questi schizzi i segni che delineano l’oggetto da ritrarre paiono compenetrati da una dottrina divenuta innata entro la mano che li traccia, e che li rende in un certo senso bilaterali ovvero in grado di adombrare in un modo apparentemente quasi inesplicabile pure tutto l’ambiente circostante l’oggetto.
Sembra di poter dire, osservando il bozzetto d’un maestro nipponico, che i tratti a pennello del disegno agiscano in una sorta di avveduta complementarità fra l’oggetto e l’esterno perché essi determinando le linee dell’oggetto voluto al contempo rinviano, con un procedimento che mi pare di poter definire come la traccia di minime allusioni grafiche di scena, la mente di chi contempla all’immenso luogo che alberga l’oggetto stesso; il suo spazio inteso nel senso più vasto possibile. È questa una constatazione che può sembrare un inutile distillato di impressioni per il fatto stesso che se io schizzo senza troppo studio ma con quell’abilità data dall’abitudine un solo cubo ombreggiato o una sola casa col tetto a due falde visti in prospettiva e senza altri contorni, adombro egualmente la loro collocazione entro un più vasto panorama. Ma ciò che davvero colpisce nel disegno nipponico è, appunto, che di questa constatazione pare come ne fosse stata trovata una più profonda radice e l’arte vi si sia innestata crescendo in un albero dove i frutti sono le soluzioni geniali che ammiriamo in questi bozzetti. Dato che la massima latina è lapidaria nel suo “ultima latet”, posso solo tentare qui di descrivere con un qualche dettaglio le caratteristiche delle sunnominate minime allusioni grafiche di scena che in un disegno nipponico danno con l’economia massima di tratti l’affascinante complementarità dell’oggetto con il suo più ampio universo.
Sempre le dimensioni dell’oggetto o della composizione sono ridotte quanto basta perché la sua posizione entro il foglio sia tale da lasciare tutt’intorno un margine vuoto non troppo ridotto.
La posizione stessa è tale da non risultare così centrale al punto di distogliere l’occhio dell’osservatore dal ricordo che soggetto e composizione sono in ogni caso parte di un tutto che se a noi sfugge perché non è rappresentato, pure esso è. Si vede in questo come il disegnatore pare esser stato istruito dai maestri a considerare sempre il cosmo come il teatro massimo entro il quale si svolge qualsiasi scena e quasi si ha l’impressione che chi disegna già consideri il foglio bianco quale immagine visibile di una parte di questo cosmo, l’Uno-Tutto dove, in un angolo della sua immensità, rappresentare un piccolo atto della grande recita.
D’altra parte l’attenzione che la tradizione figurativa nipponica, sull’orma di quella cinese, ha riservato a dei generi codificati, ben circoscritti e precisati come piccoli animali, fiori, uccelli e via di seguito, per finire al sovrano monte olimpico che è il Fuji, sembra confermare l’idea di un itinerario figurativo non sbilanciato solo a favore di soggetti privilegiati ma volto a rappresentare come una parte del grande Tutto ogni attore del cosmo a noi visibile. Dal minuscolo insetto all’imponente cresta di cime montane.
Ciò detto, elenco alcune delle minime allusioni grafiche di scena che ho rilevato, quelle che mi sono apparse come le più ricche di effetto:
in un primo esempio, su di una composizione che rappresenta un ramo fiorito con uccelli, una lunga linea frastagliata si distacca da un dipresso del ramo e termina in quella che si vede essere la vetta del monte. Il ramo che rappresenta un primo piano si colloca così entro il grande panorama cui allude la lieve linea del profilo montano che pare sollevarsi dal nulla. Bella è l’impressione suscitata nella fantasia dell’osservatore: in salita sulla via, la nebbia ad un tratto si è diradata e un ramo con fiori e uccelli è apparso. E lontano si disvela il monte.
In un’altra composizione è raffigurata una teoria di tre oche selvatiche. Due sono tratteggiate con pennellate più lievi perché più lontane mentre un piccolo circolo, il sole, ben distaccato sulla destra del foglio e non troppo in alto è appena solcato dal lieve tratto di pennello che rivela la nube allungata e dà l’allusione alla vastità interminata del cielo. E qui l’impressione destata dal bozzetto richiama dei ricordi reali; ovvero quando lungo il sentiero sulla riva atestina, popolata da carpini, pruni, roveri, camminando si ode improvviso un sibilo al di sopra del capo e l’occhio si leva e scopre delle oche di fiume remigare con vigore l’aria nel loro veloce volo vespertino per sparire presto alla vista. E l’ultimo sole, pallido appare striato dalla più alta delle lunghe nubi che separano, al termine del dì, la pianura dal cielo.
In una terza scena disegnata, vi è un cervo magistralmente abbozzato nelle sue nobili forme nel settore inferiore del foglio ed in primo piano con, a lato, alcuni segni che delineano un ciuffo d’erba dagli steli che si flettono come archi aperti a ventaglio. In alto, lieve e netta è la linea che rivela la cresta di un monte. In pochissimi tratti vediamo il cervo e il contrasto magnifico che trova luogo nella sua natura, tra il suo apparire aggraziato e fragile ed il suo vivere indomito per balze selvagge.
È stato spesso ricordato che alla costruzione prospettica cinesi e nipponici non siano pervenuti se non attraverso il contatto con gli Europei. Il fatto ha la sua singolare conferma in certi appunti grafici di Hokusai e poi in Hiroshige che effettuano delle elementari costruzioni di teorie di case con il punto di fuga centrale della prospettiva classica.
Ma la visione delle opere dei maestri nipponici subito ci mostra come l’assenza delle possibilità più vaste della costruzione prospettica si sostituisca con una sensibilità scenografica assai coltivata della quale si è cercato, nel possibile, di riassumere un qualche minimo aspetto. Che questa sensibilità sia stata resa sempre più penetrante in virtù delle discipline di controllo mentale diffuse capillarmente in Giappone dal Buddismo e dalla dottrina Zen è una cosa quasi superflua a rammentarsi.
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