Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Quadrato nero e quadrato rosso
Ho immaginato una strana trasposizione in architettura del quadro con il quadrato nero - o rosso - di Malevič. Si pensi di percorrere un sentiero su di un altipiano nudo, spoglio di vegetazione, quale appare ad esempio nelle distese erbose della Lessinia, e si guardi al paesaggio di settentrione dominato dal verde e dal celeste, con i monti circostanti né troppo alti né incombenti e tuttavia prossimi. Si fantastichi infine di imbattersi, lungo l’ultimo tratto in piano prima della salita ad un monte, nell’architettura ideata e qui elevata in pietra bianca o grigio rosata con il bacino superiore in pietra nera o rosso vivo e colmo d’acqua. In pratica essa null’altro è che un solido a pianta rigidamente quadra, ovvero uno zatterone in pietra bianca, quadrato, elevato di circa un metro e settanta sul prato pianeggiante che lo accoglie. Una scaletta posta ad occidente sul lato di mezzogiorno permette la salita alla piattaforma dello zatterone e le fa compagnia un obelisco rudimentale, non più alto, con il globo ed lo spuntone in guisa di pinnacolo, di un quattro metri al massimo. Il lato della piattaforma misura un diciassette metri. Tutte queste dimensioni le traggo in via sperimentale dall’unico scarabocchio dato di getto al seguito dell’idea. Sulla piattaforma, è scavato nelle lastre bianche di pietra un bacino da colmarsi di acqua, quadrato, profondo alcune decine di centimetri e lastricato a sua volta di bella pietra nera come l’ardesia o rossa.
Se l’architettura nasce solo per una fantasticheria pure essa si innesta naturalmente nell’ambito descritto dato che in fondo quasi non appare e può essere simile ad un deposito rurale dal tetto piano come ve ne sono qua e là sull’altipiano sparsi. Se il paesaggio è invernale l’architettura è appena visibile, se addirittura non si occulta immersa nella neve e quest’ultima, in accumulo sulla cornice, leva alla vista il bacino delle acque ora gelato. L’impressione maggiore, se si disegna nella mente quanto fin qui descritto, è data dal fatto che l’architettura alla fine appare come voler accogliere, in guisa di quegli abbeveratoi d’acque piovane necessari alle vacche che su questi prati pascolano, le suggestioni che vengono dal cielo. Sulla superficie dell’acqua raccolta nel bacino quadrato non si riflettono lungo la notte le tracce del moto stellare? Non si specchiano su di essa le nubi del dì e le traiettorie delle poiane che altissime perlustrano l’altopiano?
Tutt’intorno sono prati rasi dal brucare continuo dei quieti bovini al pascolo. Sovrastano poco distanti le cime della Prealpe popolate fino a mezzacosta da boschi di conifere. La vita vegetale sembra, in questo paesaggio, restare in ombra e ridursi al solo spuntare di steli d’erba rispetto al muto affiorare all’occhio dei volumi possenti ed immoti di rocce massi, pietre, siano queste ultime quelle levigate nelle rudimentali architetture dei depositi rurali. Ma non è un’impressione deprimente quella che se ne riceve. Il lettore dei Parerga e Paralipomena di Arthur Schopenhauer sa che la vita e con essa la contemplazione dell’onnipossente Wille si oggettivano con gioia maggiore per noi quando il paesaggio è costellato di acque, che riflettono luci, forme, colori, e di fiori, piante, alberi che elevandosi schiusi in corolle di petali o ramificati e frondosi manifestano appunto la bellezza tragica ma immensa del volere supremo. In questo lembo d’altipiano vegliato dal Corno Mozzo l’equilibrio estetico è molto delicato. Prevalgono alla vista le rocce, i sassi e l’erba. Non vi sono specchi d’acqua. Gli abeti, aggrappati alle coste del monte, sono lontani, ed è solo qualche raro ciliegio selvatico a levarsi accompagnato da rovi al margine della strada rettilinea e deserta che si muta dopo alcuni chilometri nella rampa che sale a serpentina sul Corno. I toni intensi del cielo sovrastante, le nevi o il ghiaccio invernali, e le gocce d’acqua che pure luccicano dagli steli d’erba in molte occasioni del dì, le pietre candide e levigate dal tempo, rammentano che il Wille ha in ogni caso arbitrio creativo indomabile. Proclamato dal rude e bello spettacolo di natura che qui si rappresenta.
La strana architettura inventata dai famosi quadri suprematisti riesce a smarrire presto il senso d’una nascita praticamente inutile. Qualche allevatore può ingegnarsi di costruire una bella rampa in legno sulla quale dal prato transitino alla corona di pietra bianca i bovini che ivi possono lappare l’acqua da un bacile artistico e dissetarsi. Non è detto che quest’acqua, su cui si è specchiata la luce degli astri notturni e che si è imbevuta – per un trapasso dalla qualità attiva a quella passiva - delle pure irradiazioni del sole, non veda esaltate le proprie doti propiziatrici di salute. L’architettura assume così un nuovo ufficio di ausilio ai generosi bovini da latte.
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