Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Franz Schubert
Non comprate quadri moderni, fateveli in casa, sembra sia stato detto da un Longanesi che spesso, se non sempre, era in vena di far dello spirito. La massima è pervasa di gaia ironia e mi dà il destro per una scheggia scritta ovvero una breve riflessione. Nella piccola stanza nuda della mia stamberga che potrebbe assimilarsi, immaginando che la finestra desse su di una bella campagna, alle camerette viste in prospettiva e stampate sulla Hypnoerotomachia Poliphili passo il tempo a guardar le pareti. Di colpo mi accorgo che potrei attaccarvi un qualche quadretto. Non possiedo il disegno dello von Schwindt che ritrae una ristretta schubertiade a tre in una locanda dei dintorni di Vienna. Né mi arrivano per vie più o meno traverse delle cartoline scarabocchiate dal geniale Gen Paul, il sodale di Cèline nella Parigi d’anteguerra, labirinti di segni che paiono gli ideogrammi d’una scrittura entro i quali con un minimo d’allenamento si disvelano all’occhio in uno scintillare di pennellate colorite e calligrafiche i fiori o l’altura di Montmartre, il Sacro Cuore o la Torre Eiffel con una locomotiva che sbuca dalle case in ombra di sotto al gigante ferrato. Rammento ora che in uno dei Bulletin Cèliniens che di tanto in tanto ricevo campeggia la bella riproduzione d’uno dei disegni di Gen Paul che illustravano nel 1942 l’edizione di “Voyage au but de la nuit”. Attraverso l’internet delle immagini mi imbatto nelle fotografie delle pagine d’uno degli esemplari di quell’edizione del volume, le cui illustrazioni furono illuminate molti anni dopo dal pittore stesso colla tecnica del guazzo, e ciò per farne un dono. Che non possa io staccare dal mio Bulletin la pagina con il disegno e decorarla, imitando alla perfezione le pennellate rapidissime stese dal Francese che vedo nella fotografia? Così mi potrei fregiare del titolo di bravo copista e in più ho un bel quadretto da attaccare alle povere pareti sguarnite. Ma lascio cadere per ora l’idea e accampo di fronte a me stesso il pretesto di non voler rovinare l’esemplare d’un quadernetto che forse diviene raro in futuro. In realtà devo trovare, e presto, un’idea da tradurre in ornamento decorativo per le spoglie pareti che, non aggiustate da un aperto panorama di campi e cielo dalla finestra, possono esercitare un effetto deprimente. E mi conviene pure trovare una ragione collaudata che pure giustifichi ai miei occhi l’esito modesto della copia o del quadretto che mi accingo a scarabocchiare.
Mi viene in mente allora che quando si contempla un’opera realmente intemporale, sia essa immensa per segno e potenza, come la grande pittura fiorentina e fiamminga o la scultura ellenica, sia essa modesta o addirittura modestissima, questa lancia il suo dire come uno strale al futuro, cui è indicato un monito, è additata una via. E’ però anche verso il passato che tale opera si volge, a questo essa getta quel raggio di luce che lo fa riemergere ai nostri occhi dall’ombra che lo avvolgeva in un incognito indistinto per rammentarcelo condensato in poesia. Così ad esempio è pel disegno del von Schwindt, uno schizzo davvero dato di getto, senza ombra di tecnica, senza raffinamenti. Una vignetta si potrebbe dire nel senso della figurazione semplice e senza pretese d’arte d’una verità poetica. Come vuole Schopenhauer. La verità poetica qui essendo il viso aperto di Franz Schubert ritratto sullo sfondo d’un cielo scuro costellato di nubi. Dietro le sue spalle sta una chiesetta di campagna, siamo nei dintorni di Vienna, negli Heurigen, il cui campanile oltre alla classica cupola a cipolla, eguale a quelle delle chiese russe, mostra l’orologio colle lancette poste alle sette meno dieci. Ora postmeridiana plausibilmente, dato che proprio alle spalle del fanciullo che non sapeva di essere un gigante, come scrive in una lettera Nietzsche, il sole tramonta dietro la collina. Contorno di pergole con pampini e i calici colla bottiglia di vino sul tavolo.
Dov’è qui tutta la verità poetica? E’ in Schubert stesso, immenso nel genio come un sole, semplice negli ozi fatti di riunioni con bravi sodali scelti davanti un calice di vino agli Heurigen, e un fato che come il cielo imbrunito alle sue spalle incombe e presto accompagna il sole al suo tramonto dietro la dolce collina viennese. Un ritmo temporale brevissimo e scandito dai rintocchi degli orologi ma dilatato oltre ogni tempo dalla musica delle sue sinfonie ottava e nona, dalle sue composizioni per pianoforte, dai suoi cicli di lieder immortali.
Devo dunque appender alle mie pareti un qualcosa che ne tolga il vuoto deprimente. Non ho la finestra che dà sulla campagna e se voglio estraniarmi per un istante non voglio ricorrere sempre e solo alla riflessione entro me stesso o alla lettura. Voglio osservare scene con l’occhio che non avevo di un altro disegnatore , entrare dunque in una visione che non avevo possibilità di immaginare da solo e con i soli miei ricordi. Non ha, la mia fantasia, l’onnipotenza di immaginare l’infinita trama del Tutto.
Ho sott’occhio due acquerelli d’un paesaggio marinaro. Potrebbero essere quasi opere dell’arte popolare perché rammentano quelle portelle in legno dipinte con paesaggi e piccole scene che chiudono le arnie delle api nelle campagne carinziane. I due acquarelli che ornano le mie pareti potrebbero benissimo essere incollati su portelle consimili di apiari della Versilia carrarina o lucchese. È variato il paesaggio, là si è nell’Austria Felix fra campi e colline, qui sulle coste del granducato fiorentino e asburgico incombono le Alpi marmifere. La fattura dei quadretti è rudimentale, l’artiere deve averli schizzati per la pura gioia di far passar il tempo avendo in vista o rammentando un paesaggio a lui caro; alcuni particolari però avvisano che l’ispirazione non era affatto puerile: in uno dei due, sulla balconata, alzata sullo specchio di acque di una insenatura - è la costa livornese o quella elbana? - fra agavi e flora di macchia mediterranea se ne sta accoccolato sul muretto di ringhiera un gatto bluastro di pelo e contempla la distesa marina. La verità poetica qui si occulta, rimpiattata dietro i colori bruciati della flora estiva dove tutto è in fioritura e chiarissima è l’aria. E’ nel gatto immoto, che qui mi appare come l’emblema della contemplazione attiva, del distacco voluto e libero dal mondo della semplice e pure magnifica parvenza. Dello sguardo ostinato e quieto verso l’oltre , rappresentato dalla superficie delle acque che in fondo, all’ultimo orizzonte, nulla ha più se non solo un confine immateriale con il cielo sovrastante.
von Schwindt con Schubert
Sconfinare nella filosofia di Schopenhauer o nel ricordo del Buddha è ora possibile e quasi naturale, pure se l’avvio non è venuto dalla pagina scritta ma da un rudimentale disegno. Posso dire, con una punta di autoironia, che alle mie pareti vi è l’occasione d’una galleria mistica, un omaggio alla sapienza perenne, alla santità scevra dalle religioni del principe himalayano. E a ciò bastano in fondo solo due acquerelli.
Ma altre due pareti delle quattro composte nel rettangolo della mia stanza restano sguarnite.
Cerco di mantenermi in tema con la dottrina e, stanti le mie scarse doti di disegnatore, dato che di pittore mai né coltivai, ecco che mi torna davvero utile la gaia freddura dell’imprendibile e corrosivo Longanesi. Acquistare antiche stampe o incisioni mi costa la fatica di ricercarne di belle le quali non possono che essere costose. E se la piccola stanza alberga in una bella casa storica, questa non è tuttavia una dimora fiorentina o palladiana.
Non posso e non voglio perdermi in velleità da collezionista, devo solo ornare due pareti in modo che rendano grata parvenza all’occhio nello sguardo di ogni istante e mi aiutino nella riflessione lungo gli intervalli contemplativi. Devono essere, le opere che voglio appendere, vive di colore e armoniche di forme, delle composizioni eseguite con tecnica fine e pervase d’uno stile che abbia dei risvolti sottili.
Mi immergo dunque nello studio dei dipinti di Julius Evola che giusto per essere l’autore d’un riconosciuto volume sulla dottrina del risveglio buddhista, aver studiato le dottrine dell’idealismo germanico, essersi misurato con le cesure radicali dell’avanguardia europea da Rimbaud in poi, attira la mia attenzione di allievo quanto mai estemporaneo. I quadri di arte astratta di Evola furono replicati da lui stesso per riguarnire le spoglie pareti della casa, allorquando in occasione dell’esposizione retrospettiva della sua opera essi furono venduti tutti. E repliche dei propri quadri ne dipinsero in copia Boecklin e altri.
Non abuserei dunque del mio studio se mi limitassi a copiare, eventualmente in scala ridotta, un opera che ammiro. Una volta appresi certi trucchi posso anche fingere me stesso, leopardianamente, in questi pensieri e forse, le Muse aiutando, comporre qualcosa di originale e bello.
Risolvo la questione così, e credo di prendere molto più sul serio di quanto Longanesi non si aspetterebbe la sua freddura che non è per nulla dissennata.
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