Editoriale

Generazione 2.0: i nuovi migranti

Il governo Monti disegna un modello di società imperniata sull' abbandono delle proprie radici. Al posto della valigia di cartone, quella per il computer

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

iornali e notiziari tv, talk show e rotocalchi – anche internazionali – risuonano di encomi per il nostro Governo e per il suo Capo. Non possiamo che esserne orgogliosi, noi Italiani, e chiederci come abbiamo fatto a tenere nel più nascosto dei cassetti un simile tesoro, per tanti anni.

Prese le misure adeguate a fronteggiare la crisi, il Prof. Monti ed i suoi validi e sobri ministri sembrano aver messo a tacere la nostra rissosa classe politica, conquistando alla causa del risanamento nazionale Sindacati, Confindustria e Poteri Forti di ogni risma e continuando a riscuotere consensi record dai cittadini, come attestano periodicamente Sondaggisti di ogni colore.

Eppure… C’è qualcosa che non va: sì, l’Unione Europea, le più importanti Istituzioni Finanziari mondiali, perfino il Presidente Obama tributano onori e riconoscimenti  per la rapidità ed efficacia dei pur duri provvedimenti, ma… gli effetti di tali provvedimenti devono, in larga misura, ancora spiegare i loro effetti sui bilanci delle famiglie: l’IMU ancora non si è abbattuta sulle nostre case; l’aumento del prezzo del carburante è ormai ricorrente come le epidemie influenzali stagionali, tanto che quasi non ce ne accorgiamo; le stesse conseguenze della riforma pensionistica sembrano differite nel tempo. E non parliamo delle liberalizzazioni, ancora fantomatiche e/o marginali.

Tuttavia, c’è qualcosa del governo Monti che lo apparenta a pochi altri della storia repubblicana: se ne può leggere controluce il progetto di società sotteso ai vari provvedimenti, e non tutto appare rassicurante. Non è certo nello spazio ristretto di queste note che se ne può dare conto, ma alcune considerazioni vanno pure esplicitate.

Prendiamo il tema del lavoro, all’ordine del giorno dei ripetuti incontri con le parti sociali. Già le tendenze mondiali hanno cancellato l’idea stessa del lavoro a tempo indeterminato o, nelle ipotesi più favorevoli, l’hanno connotata in termini di utopia o di privilegio residuale di pochi. La stessa espressione “mercato del lavoro”, del resto, fa pensare a un luogo di scambio dove non sono in primo piano le persone – e meno male, altrimenti ci tornerebbe in mente la compravendita degli schiavi! – bensì entità astratte quali servizi, protezioni sociali, forme contrattuali, il tutto all’insegna del cambiamento continuo, proprio come avviene nel luogo fisico del mercato.

In un simile contesto, non stupisce che in più occasioni autorevoli ministri abbiano stigmatizzato un certo – presunto? – immobilismo dei nostri giovani, accusati di non volersi allontanare dalla mamma e dalla città per andare a cercare fortuna altrove, specialmente all’estero. Qui va ricordato che i nostri connazionali hanno antiche tradizioni di emigrazione, sotto la spinta di necessità elementari e che quel fenomeno migratorio ha prodotto sì benessere, ma si è anche tradotto in uno sradicamento di massa.

Nella più diffusa idea di modernità – coniugata sottilmente con il cronico disinteresse del nostro ceto politico per l’istruzione e la cultura – si tratterebbe ora di riproporre nuovi flussi migratori – interni ed esterni – ad un più alto livello di preparazione, ma sempre in misura massiccia: in luogo della valigia di cartone, i nostri nuovi migranti porterebbero con sé la valigetta del computer.

Conseguenze? Un nuovo sradicamento, aggravato stavolta dalla perdita di risorse umane di qualità, per formare le quali lo Stato – cioè noi tutti contribuenti – ha investito ingenti capitali negli anni. Di più: la nozione di famiglia, già in crisi - come evidenziano, fra l’altro, la precarietà dei matrimoni e la crisi demografica - andrebbe ancor più stemperandosi, in forza delle distanze dal nucleo originario, e si passerebbe dall’eccesso di “mammismo” ad un necessitato “afamilismo”, dove in cima ai valori assumerebbero sempre più forza attrattiva il successo, la posizione economica, le ambizioni professionali. Senza contare il sostanziale allentamento di legami nei confronti di figure già scomparse o quasi nella realtà nordamericana, quali i nonni, gli zii, i cugini, persone che hanno dato energia vitale e capacità di memoria alla nostra gente.

Del resto, già da tempo si è capovolto il rapporto di forza fra produzione e lavoro, anche nelle sfaccettature portate dai tempi, ad esempio in termini di innovazione, uno dei totem della visione tecnocratica, che impregna di sé anche gli aspetti quotidiani della nostra esistenza. Alla esigenza di una produzione sempre crescente, infatti, si subordinano la felicità e la dignità dell’uomo-cittadino.

E proprio nella sfida con la Tecnica, già percepita come epocale, con tutte le sue criticità, da pensatori molto diversi fra loro come Ernst Junger e Arnold Gehlen, fino ai nostri Sergio Cotta ed Emanuele Severino, non solo la Democrazia, ma la stessa Politica sembrano in crescente difficoltà; con l’aggravante che la Tecnica odierna assume velocità ed aspetti immateriali determinanti, ad esempio  nel campo della Finanza e dell’Informazione. Così, al culmine del processo di secolarizzazione, rischiamo di ritrovarci al cospetto di nuovi idoli – non più le deprecate ideologie, che pure comportavano libertà di pensiero e di confronto – al servizio dei quali perfino i componenti  dell’attuale nostro governo sembrano indossare la stola di inopinati sacerdoti.

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