Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
icono i saggi che l’invidia sia quel vizio che non dà piacere a colui che lo prova. Purtroppo, in misura più o meno grande, è qualcosa che ci tocca tutti. In genere è il desiderio delle cose altrui, ed è forse il suo aspetto umanamente più scusabile. Addirittura può esistere una “santa invidia” che in realtà è l’emulazione, il voler somigliare ad uno al quale riconosciamo l’essere migliore di noi. Ma “l’emulazione è la passione delle anime nobili; l’invidia il supplizio di quelle vili.” scriveva a tal proposito Jean Francois Malmontel.
Ma questi sono casi alquanto rari, il turpe sentimento dell’invidia che alligna malignamente in ogni strato sociale è rivolto soprattutto al “vorrei ma non posso”. È la caratteristica principale in ogni campo, attività, anche tra quelle che meno dovrebbero risentirne, come il clero, ad esempio. L’invidia è la caratteristica negativa che contraddistingue gli ambienti artistici. Sono sommamente invidiosi gli attori, poi i pittori e gli scultori, gli architetti; lo sono i poeti e gli scrittori, lo sono i musicisti non meno che gli ingegneri, o i chimici, o gli insegnanti o… eh si… i politici. Insomma, nessuno se ne senta escluso, nessuno se ne senta offeso, avrebbe cantato De Gregori.
Ma tale sentire è in realtà la caratteristica e più sincera confessione del mediocre, che essendo tale, sapendo ma non ammettendo mai a se stesso di essere un fallito, un incapace, deve odiare gli altri e dal momento che non ha coraggio per farlo apertamente, compie il suo delitto sempre sussurrando nell’ombra o cercando di sabotare l’operato altrui.
Il mio adorato Oscar Wilde era solito sostenere che l’invidia fosse quel sentimento che nasce nell’istante in cui ci si assume la consapevolezza di essere dei falliti.
È certo più semplice infatti essere solidali ad un amico, o ad un conoscente, nelle sue disgrazie che farlo qualora essi invece fossero all’apice del successo. Sì perché nulla è più difficile da accettare, da ammettere, dell’essere incapaci e dunque del farsene una ragione dell’essere mediocri.
Il che non significa essere infallibili, né saper far tutto, perché l’essere umano è fallace per sua natura, ma chi osa fa e corre il rischio dell’errore o anche del fallimento, mentre l’invidioso – che non sa fare e perciò spesso insegna ciò che non conosce – mancando di coraggio fallisce ancor prima d’essere partito.
Per non ripetermi vado ad avvalermi delle parole dello scrittore Carlos Ruiz Zafón: “L’invidia è la religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, che attraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplice fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, di mente e di fegato”.
Di fatto essa è la confessione dell’inferiorità dell’invidioso nei contronti dell’invidiato.
Come difendersene dunque? Amuleti, segni apotropaici, sigilli benedetti? Forse, ma temo che all’occhio dell’invidioso non sia opponibile altra difesa che lo scudo del disprezzo, l’egida dell’indifferenza e l’armatura dell’ironico sberleffo.
Insomma, per nulla cari, invidiosi, se proprio dovete esserlo, fatelo e poi… cortesemente, crepate in silenzio!
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