Dappertutto è un trionfo di color fulvo

Dopo l’avvenimento sull’ondulata pianura di Waterloo -I parte-

Le tortuose stradine d’una campagna che si stende sotto la volta celeste dopo Bruxelles

di Piccolo da Chioggia

Dopo l’avvenimento sull’ondulata pianura di Waterloo    -I parte-

Conte di Egmont

Tema e risposta

 

Affannato ma non domo, il mio antelucano Ei  Volkswagen arranca sulle tortuose stradine d’una campagna che si stende sotto la volta celeste dopo Bruxelles. Lascio la grande capitale del minuscolo regno senza malinconia. Non ne avevo intravisto soverchi poetici intrattenimenti. Rammento una spianata ad anfiteatro su cui si erge la statua retorica d’un carneade regale, e qualche boulevard affogato di traffico. Solo la piazza dove fu decapitato il valoroso conte Egmont m’aveva colpito per il suo bel palazzo pinnacolato. Forse la sprezzatura di Baudelaire non era abusata. È giustificato in ogni caso il monumento musicale di Beethoven al conte ribelle. Non rammento più la direzione che dovevo tenere. Sapevo di dover dirigere verso Lovanio per poi, qualche giorno dopo, prender la via di Guanto e Bruggia prima di tornare in Olanda. È possibile pure che avessi preso un’errata direzione, stante la mala abitudine che ho di consultare le carte a veicolo in moto reggendole con la mano staccata dal volante.

 

Dappertutto è un trionfo di color fulvo. L’ondulata pianura coltivata a spighe mature si stende sotto un cielo che descrivere come magnifico è il minimo. Torrenti candidi di nubi fintamente procellose si rincorrono lasciando a tratti apparire degli abissi d’un celeste abbacinante. Tutto è luce in questo istante di ultima primavera e solo pochi alberi agitano al vento le chiome scure come se fossero dei palloni aerostatici ancora all’ormeggio che vibrino prima di lasciar le corde e slanciarsi in alto. D’un tratto sulla cresta della collina prossima  si disegna il profilo di case allineate d’una località ed un campanile annuncia un paesello agricolo. Sul ciglio della stradina carrabile, avvicina il muso stondato della Volkswagen un cartello segnaletico, solitario e allampanato come un granatiere smarritosi dal suo plotone: Waterloo…

 

Controtema e fuga

 

Georges Dumézil in uno scritto raro, plausibilmente uno dei suoi ultimi, interpreta al lume della tripartizione delle antiche religioni indeuropee le gerarchie dello stato sovietico e del regime nazionalsocialista tedesco. Un esempio di come l’applicare l’architettura ricostruita dal Francese si adatti davvero in modo suggestivo ad interpretare le componenti d’un edificio la cui comprensione, per chi non è un teorico politico, restava un dilemma da rischiarare colla lettura di ponderose opere di storici e giuristi. Per questi ultimi si può, nel caso se ne trovi l’utilità o il tempo, volgersi ad uno scritto di Carl Schmitt, che, nato quasi dalla culla dei guelfi bianchi fiorentini, si era dato pure lui a tripartire il nuovo corso avviatosi col gennaio del 1933 nel “Deutsches Reich”,  in un perentorio massivo “Staat, Bewegung, Volk”. Da tradurre in” Stato, Movimento, Popolo” avvisati che il poderoso carico della spengleriana “Kulturkritik”, fiammeggiante entro le tre auguste parole tedesche, piomba sulle fragili spalle di poveri termini del nostro latino. Inutile qui aggiungere che l’astratta tripartizione del giurista germanico non ha per un dotto contrappunto il vivissimo brillare della ricostruzione del Francese, ove ogni stadio dei tre si mostra nel volto o nei volti espressivi e nei caratteri nitidi dei propri numi. In poche righe allora si tenta qui un’applicazione alla Francia napoleonica della possente suggestione pervasa di charme estetico che si riceve dall’opera di Dumézil.

 

Ricapitoliamo con un brevissimo excursus i punti nodali dell’architettura ideologica indeuropea: le tre funzioni nelle quali si ripartono gli attributi degli dèi vedono: al primo livello la sovranità divisa in modo antisimmetrico fra il dio sovrano mago, inquietante, poderoso, lucente ma pure notturno, che avvince coi lacci della sua magia, campione è qui il vedico Varuna, e un dio sovrano giurista, legislatore e garante dei patti, benevolo, rappresentato da Mitra. Paralleli sono, in Roma, al primo l’imperioso Juppiter, al secondo il pallido Dius Fidius. Al secondo livello vi sono gli dèi della guerra, come Indra o il latino Marte o il Thôrr scandinavo. Al terzo livello stanno gli dei della prosperità, della fecondità, della bellezza, della salute: i Nasatya vedici, Freyr nel Nord, o il romano Quirino . La sovranità nel primo livello si articola ulteriormente in altri due dèi ausiliari al seguito del buon Mitra: Bhaga che ripartisce in modo equo, plausibilmente in base all’antico e duro “suum cuique tribuere”, i beni di questo mondo e di questa vita, ragione per la quale già nei proverbi vedici fa capolino la massima assai esplicita “Bhaga è cieco”, e Aryaman il dio che sovrintende ai matrimoni ed alla continuità della società aria indeuropea. Fra gli attributi di quest’ultimo vi è anche il proteggere l’ospitalità ed il sovrintendere alle strade. La ricostruzione del Francese è completa quanto gli antichi documenti lo rendono possibile e anche Roma ha i corrispondenti di Bhaga e Aryaman: essi sono Terminus, il dio che vigila sui confini fra i poderi, ben comprensibile nella sua utilità ad una prisca società rurale, e la generosa Juventas che protegge il futuro delle stirpi latine vigilando sui giovani. Quanto al mito di fondazione della società tripartita indeuropea va altresì rammentato che i superbi dèi sovrani e della guerra non si sono subito accordati con i più modesti dèi della prosperità e della salute, se non con una lotta ed il susseguente sacrificio di un buon gigante. Nel Veda infatti Varuna e Indra erano in guerra con i Nasatya, o Asvini, gemelli benevoli che il gran signore della “maya” ed il possente guerriero dalla barba rossa ritenevano dèi d’un rango minore. Un eremita, dato che si è alle pendici dell’Himalaya, alleato dei Nasatya, al quale essi avevano reso la salute, fabbricava colla sua forza mentale il gigante Mada, ovvero “Ebbrezza” che presto minacciava di inghiottire tutto il mondo, dèi recalcitranti compresi, se non terminava questa dannosa contesa. Cedeva Varuna e anche Indra cedeva e così l’accordo era fatto:  i Nasatya erano associati alla comunità divina, mentre Mada, esaurito il suo ufficio, veniva tagliato in quattro parti dal pio eremita e la sua essenza si distribuiva nella bevanda di ebbrezza, nelle donne, nel gioco e nella caccia. Nel Nord germano-scandinavo, colla lotta fra Asi e Vani, e nel Latium vetus, col ratto delle Sabine da parte dei Romani, Dumézil mostra l’esatto, o quasi, parallelo del mito indeuropeo di accordo delle prime due funzioni colla terza, esplicato in forma drammatica nel racconto vedico qui riassunto.

 

L’architettura tripartita e mirabile ricostruita dal Francese non esaurisce, e ciò è chiaro, il meraviglioso mondo dei numi vedici e quindi romano-italici e germanici e oltre. Esso appare infatti come una carpenteria affastellata ed elastica dove le colonne maestre, i numi principi, hanno correnti e travi che le legano: i tanti altri numi che vi stanno intorno e a volte si distinguono per un qualcosa, a volte sono così lontani e pallidi da confondersi nell’immenso indistinto celeste. Di questi ultimi sono Dyaus, il cielo luminoso e Prithivi,  la grande “estendentesi”, che Angelo De Gubernatis nel suo “Letture sopra la mitologia vedica” individua con bella indagine in una sorta di madre celeste intesa come un cielo pieno di acque, quello completamente nebuloso e grigio; è Aditi, la gran volta celeste, l’”interminata” che assume in sé la coppia cosmica Dyaus-Prithivi, e poi Râtri, la tenebra illuminata ovvero la notte accesa dai suoi mille occhi quali sono le stelle nel Rg-Veda. Dei primi è la bellissima Ushas, l’Aurora, che inganna Varuna e lusinga Mitra; è  Agni, il fuoco, nato dalle acque, e generato poi ogni volta dai due “arani”, i bastoncini di legno strofinati fino all’incendio; è Pûshan, il “ nutritore”, ovvero il nume che la sera accompagna il bestiame nelle stalle e lo protegge e lo accresce, ed è anche il nume che aiuta i viatori a trovare un riparo per la notte; è Dhâtar, il “collocatore”, che aiuta nella generazione di eroi e principesse e semplici fanti e donne da poi che il dio Aryaman ha unito i loro padri e le loro madri con il matrimonio. Ha uno stato divino anche Tvashtar, fabbro e falegname, gran costruttore anche di quei carri da guerra che permettevano alle orde arie la conquista. Esso ha, con indubbia coerenza, in Vayu, il vento di tempesta trasformato in nume, il suo genero.  E vi sono pure tracce di miti di nascite cosmiche che si intravedono dal cannocchiale indeuropeo con i quali un qualcosa dell’agguato napoleonico alla storia può trovare vaga similitudine: il pilastro cosmico, lo Skambha è l’asse del mondo che come un albero si leva dalle acque del caos e contiene in sé l’intero Indra e porta l’embrione di tutte le cose.

 

Come applicare ora l’architettura tripartita vedica, e dei suoi vari rami i numi che come frutti festosi fra le foglie vi fanno capolino, all’Empire edificato dal condottiero di Austerlitz e rapidamente ruinato nella malinconica campagna di Waterloo? Devo procedere per stadi molto semplificati. La prima funzione, quella della sovranità vede, e ça va sans dire, unico dio il grande Corso che nella sua ansia di grandezza, nata dal sentirsi “…toujour seul au milieu des autres…” trova perpetuo alimento in un’infinita melancolia quale forse nemmeno Albrecht Dürer potè raffigurare nelle sue incisioni: “…je rȇve avec toute la vivacité de ma melancolie…”. Donde provenga la fatale melancolia, se dalla visione dei selvaggi panorami di Corsica, o della distesa di acque sotto il cielo terso di Ajaccio oltre il quale è la Francia, o dalla contemplazione romantica delle notti accese di stelle figurate nella divina Râtri non può che celarsi nel dilemma. Per ulteriormente affinare l’indagine che comunque traballa sempre come i passi su di una lastra di ghiaccio, procediamo: se il quieto Canova da Possagno ritrae nel marmo il Bonaparte nudo quale Marte pacificatore, qui al contrario lo si deve identificare in una figura a più volti che assorbe entro sé le caratteristiche degli dèi sovrani vedici. Non per nulla si sa che Napoleone, quantomeno se si ricorda l’architettura politica da lui costruita, pare avere piuttosto un istinto di accentratore che non  l’inclinazione alla dottrina di colui che confida pure ad altri una certa possibilità di decidere. Il Varuna sovrano perennemente inquieto, alla cerca dell’immenso spaziale è perfettamente visibile nel suo continuo  ardore di conquista e dominio. Mitra, il sovrano giurista, è presente con l’ambizione che il Corso ha dispiegato nell’ergersi a supremo legislatore col Codice Napoleone. Ei fu presente e attento alle riunioni dei suoi giuristi che dovevano tracciare le linee di questo suo nuovo e rivoluzionario Jus condendum. Bhaga è presso di lui con gli occhi ben aperti quando vi è da decidere le parti di gloria da riconoscere a chi contribuì a questa o quella vittoria militare. Non si astenne Napoleone dall’elevare al cielo alcuni dei suoi Marescialli con parole ancora oggi memorabili: l’”enfant chéri de la Victoire” per il nizzardo Massena o “una delle più pure glorie di Francia” nel nominare, nel memoriale di Sant’Elena, l’elegante Davout. Né si astenne dal promuovere soldati a ufficiali in alcuni minuti e con suggestive rapide cerimonie ritmate dal tamburo battente, quando questi si erano mostrati valorosi sul campo. Bello il fatto di quando chiamato un soldato, che sapeva scrivere, a mettere nero su bianco sotto dettatura un suo ordine, d’un tratto un proiettile d’artiglieria caduto nei pressi sollevò polvere e suolo tanto da spazzare tavola e foglio. “Ah, bien, disse il bravo soldato e con nonchalance tutta francese proseguì: “je n’aurai pas besoin de sable”! Napoleone non si dimenticava del gaio coraggio del soldato che tempo dopo divenne generale! Gli occhi di Bhaga sono, al contrario, avvolti in spesse bende quando si trattò di fare le parti o meglio disfarle nel momento in cui all’Aquila rapace furono a tiro le opere d’arte in Europa, molte delle quali presero inesorabilmente la via di Parigi. E l’Aquila ancora fu Aryaman di sé stessa quando, assente un “Aiglon”, aquilotto, Napoleone dovette ripudiare la bella Beauharnais  per una pia e rustica Absburgo. Complice il Metternich. Ma, ancora, Bhaga non era del tutto cieco, e il figlio della povera ripudiata, il buon principe Eugenio, restava nel cuore del Corso né cadeva in rovina. E riceveva in matrimonio la principessa Amalia bavarese, la “celeste”, come dice la derivazione gotica del suo bel nome. Matrimonio che fu davvero nobile e felice. Quali Varuna e Mitra sono generati dal vetusto “Dyaus pitar” , il gran padre degli dèi che, all’atto di perdere lentamente la sovranità datata di antichissimi eoni, si ritira nel cielo diurno che da lui prende  il nome, come si legge nei capitoli di Mircea Eliade, così Napoleone, imperatore e futuro legislatore, prende dalla mano pallida di un Pontefice la corona e se la pone sul Capo colle fatidiche parole “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca”. E raccontò poi che in quel momento gli sovvenne nettissimo il ricordo del padre Carlo Bonaparte. Dyaus aveva effettuato la consegna e si ritirava nella tenebra celeste. Varuna notturno e inquietante è ancora di presso a Napoleone nella cattura ed esecuzione del Duca d’Enghien. In perfetto contrasto colle norme del diritto.  E l’oscura tenebra non vuol cedere. Nel memoriale della piccola isola sperduta nell’Atlantico Napoleone solo e al cospetto del prossimo e ultimo sospiro riafferma che, tornato indietro, ancora riordinerebbe  l’esecuzione dello sfortunato Duca. Forse a Châteaubriand, che da fedele legittimista ha difeso a spada tratta l’Enghien in un durissimo capitolo di accusa al Bonaparte, non sono stati noti dei risvolti oscuri che Varuna può aver svelato al Corso? Arduo decidere. Ma cosa dire allora ai bravi legittimisti, lettori assidui di De Maistre, del caso del valoroso Maresciallo Ney? Certo qui vi fu rispetto delle clausole del diritto, ma non pare lo stesso aleggiare nell’aria un oscuro risentimento per la sorte del Duca d’Enghien?  Aryaman: nell’Olanda, l’Holt-land, il paese dei legni ovvero del bosco, il fratello di Napoleone siede sul trono e nei rapporti che, stante certa sua scarsa dote di genio, è tenuto ad inviare al fratello conquistatore che lo sorveglia onde rechi meno danni, vi sono note precise e ben dettagliate e davvero curiose sulla bellezza delle donne olandesi. Che ciò sia un quid tanto per sapere come fare eventualmente ammogliare in un futuro i bravi soldati della Guardia o di altri reggimenti en bleu blanc rouge, visto il perpetuo saccheggio attuato colle continue campagne dal fratello geniale, ma che non riesce ancora pacificatore, sulle classi di leva dei prossimi e bravi sudditi fiamminghi, bretoni e normanni? En passant e quasi superfluo è il ricordare come l’insistente Bhaga divenga un nume strettamente familiare del clan Bonaparte colla distribuzione di regni e ducati a fratelli, sorelle, cognati pure quando essi hanno dimostrato di non aver punta o aver solo minime doti al reggimento di Stati. Accentratore magnifico, Napoleone esaurisce in sé e per sempre il primo livello della sovranità indeuropea né fa in tempo ad istruire l’Aiglon come aveva fatto Varuna con suo figlio Bhrigu, inviato nel mondo notturno a studiare, anche se ciò avviene in una raffinata e davvero armonica articolazione di sue individuali disposizioni, dove tutte le quattro figure vediche fanno capolino in lui con un modo che non pare poi troppo incerto. 

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