Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Ferenc Puskas
Da sempre il calcio confonde i propri valori sportivi con altri in cui si ritrova costantemente immerso, ossia quelli politici e sociali. Ma come può uno sport praticabile in sostanza ovunque con il solo uso di un oggetto rotondo, influire pesantemente sulla società, e viceversa?
Nel corso della storia si sono succeduti personaggi e società che hanno combattuto vere e proprie guerre mediatiche usando il calcio come strumento politico, attraverso esultanze esuberanti (si ricordino quella del brasiliano Socrates e dell’italiano Di Canio) e pesanti scioperi, ma non solo. I vari governi d’altra parte hanno spesso utilizzato questo sport come propaganda politica, partendo dalla nazionale italiana del Fascismo fino ad arrivare al Milan di Berlusconi.
Ma chi più ha pesato nel calcio sono i personaggi che si sono contraddistinti all’interno di un ambiente sfavorevole per lo sviluppo di uno sport, sia per motivi economici sia per motivi ideologici. Fu l’Inghilterra a inventare lo sport più amato, e fu proprio la nazione inglese a portarlo ai massimi livelli, introducendo il professionismo sportivo, finché, come una vera e propria malattia, il calcio ha influenzato ogni angolo della terra, comportando modifiche importanti per la formazione di quello moderno cui tutti assistono.
Purtroppo ai giorni d’oggi il calcio è etichettato solo come malato, corrotto, falso, esagerato: una macchina di guadagno in continuo movimento (che purtroppo gli episodi recenti della Fifa confermano); non è solo questo.
Federico Buffa, giornalista e telecronista sportivo, nonché autore di rubriche calcistiche in cui racconta storie di grandi personaggi del mondo del calcio, sostiene che il calcio è l’unica reale lingua dell’umanità, declinata in modo diverso, ma sempre la stessa. Raccontare storie di calcio ci aiuta a raccontare la storia del secolo, perché ogni personaggio, ogni campione, è legato alla storia del suo paese.
Aranycsapat, la squadra d’oro.
L’esempio che incarna meglio la totale innovazione calcistica è stato il periodo della “Grande Ungheria” durante gli anni cinquanta, allenata da Gusztav Sebes e trascinata da Ferenc Puskas, detta “squadra d’oro”.
Quando s’identifica una nazione con una parola, un semplice cognome, le possibilità sono due: la prima è perché la lingua parlata è così complicata che la conoscono solo loro, la seconda è che quel cognome, attraverso un anello, viene sigillato nel tempo.
Nella storia in questione sono entrambe necessarie perché quando si parla di Ungheria, la lingua che la popolazione parla appartiene al ceppo ugro-finnico, la più inaccessibile agli europei e a quel cognome corrisponde un uomo, che quell’anello lo possedeva veramente. Federico Buffa in “Storie di Campioni” parla di Ferenc Puskas, l’uomo che ha fatto la storia del calcio magiaro.
Puskas nasce il 2 aprile a Budapest, nel 1927. Nasce come Ferenc Purczeld, suo vero nome, cambiato poi da suo padre nel 1937 in Puskas. Il cognome iniziale, di origine tedesca, cozzava con la realtà di quegli anni, nella quale avere a che fare con la Germania di Hitler significava riscontrare non pochi problemi causa i forti nazionalismi. La famiglia apparteneva a quel gruppo di tedeschi che nel XVIII secolo arrivò nelle parti orientali d’Europa (Ungheria, Polona, Ucraina).
Così, Ferenc Puskas, esordisce in Serie A all’età di 17 anni, grazie a suo padre, divenuto allenatore. Nel 1945 in Ungheria era appena iniziata la battaglia di Budapest quando i tedeschi si arroccarono nella capitale. La squadra in cui militava era il Kispest, poi trasformato in Honved, nome del soldato di fanteria, che combatté durante la Prima Guerra Mondiale, perché qualsiasi organo extra governativo, come il calcio o la pallamano (o qualsiasi altra squadra sportiva), doveva essere controllata dal governo, assimilata. Per poter esordire Puskas è costretto a cambiare nome, perché troppo piccolo per giocare e diventa Ferenc Kovaç, per poi tornare Ferenc Puskas e cambiare definitivamente la storia dell’Ungheria.
Mentre la sua popolazione conosce tempi duri, con il trattato di pace di Parigi (1947) e l’arresto del cardinale József Mindszenty, quel ragazzo che gioca con la maglia numero 10 grazie al calcio può girare il mondo, dalla partita contro l’Italia a Torino (contro il Grande Torino), passando per i campionati olimpici di Helsinki vinti dalla “squadra d’oro” nel ’52 fino alla storica gara di Wembley.
Wembley 1952
L’Inghilterra aveva la tradizione (durata fino agli anni ’70) di invitare a giocare nel proprio stadio la migliore squadra europea vincente di una competizione ufficiale, così chiamò i campioni ungheresi delle olimpiadi di Helsinki. Gli inglesi, nell’anno in cui salì al trono la regina Elisabetta II, però, furono letteralmente umiliati dall’Ungheria.
I giocatori di Sebes erano inizialmente convinti delle proprie capacità, ma quando arrivarono al sottopassaggio, videro gli inglesi così più grossi di loro da doverli guardare dal basso verso l’alto. Indossando scarpe primordiali e sfoggiando fisici non troppo smaglianti, la squadra ungherese offriva numerosi talenti oltre Ferenc Puskas, come Palotas o Hidegkuti; la partita finirà 6-3 per i magiari, ma il risultato non racconta esattamente la gara: 35 tiri in porta contro i 5 degli inglesi, un totale dominio. Apre le marcature proprio Hidegkuti e porta la nazionale sul 2-1 dopo il pareggio inglese, poi, come ogni volta, torna Puskas. Palla laterale, cross dentro l’area e stop di interno sinistro; il capitano dell’Inghilterra Wright accenna ad un tackle in scivolata nello stile classico inglese, ma va a vuoto: Puskas si tira indietro la palla e manda all’aria l’intervento di Wright calciando in una frazione di secondo come solo lui sa fare sotto l’incrocio dei pali. 3-1. E’ uno show dei giocatori di Sebes. “Se noi abbiamo inventato il calcio, loro che cosa sono?” diranno gli inglesi dopo la partita.
Al loro ritorno a casa trovano 300.000 tifosi in piazza, l’Ungheria è in festa in attesa dei Mondiali del ‘54. Impossibile che non siano vinti da Puskas.
L’inizio del declino
L’Ungheria,
infatti, arriva come grande favorita. Nel girone si ritrova contro la Germania
di Sepp Herberger, che architetterà di far fuori dal gioco Puskas, chiedendo al
suo difensore Liebrich di fare un fallo estremo al numero dieci. E così fece. Lì,
quasi certamente, l’Ungheria perde il Mondiale.
In finale, sempre contro la Germania, Puskas vuole giocare a tutti i costi anche
se non in ottime condizioni. L’Ungheria passa in vantaggio per 2-0, primo gol proprio
suo. Qualcuno della sociologia tedesca sostiene che la nuova Germania sia nata
proprio in quel pomeriggio, ma non si può dire; ciò che è sicuro - sostiene Federico Buffa - è che quel pomeriggio è nato il calcio tedesco”. La Germania va in
vantaggio per 3-2, Puskas pareggia ma il gol viene clamorosamente annullato:
l’Ungheria ha perso.
È evidente che al loro ritorno la festa non ci sarà.
Fra gioco e rivoluzione
Fu Mihaly Farkas, segretario del Partito Comunista ungherese, l’ideologo della “squadra d’oro”, destinata a glorificare il regime e pensata come il riscatto per i magiari nel momento più difficile della loro storia. La sconfitta d’altra parte non faceva altro che tirare via il velo che c’era sopra le orribili situazioni. La partita venne seguita attraverso la radio da più di 200.000 ungheresi, che nel momento della sconfitta, increduli e stupiti, intonavano voci contro Puskas e compagni, incluso l’allenatore Sebes, accusandoli di aver venduto la partita. La testa di Sebes l’avranno – dichiara Federico Buffa - poco più tardi. Il calcio ungherese, diametralmente a quanto è accaduto a quello tedesco,ha terminato la propria parabola quel pomeriggio. In un’intervista rilasciata a Totalita.it, Federico Buffa,sostiene che neanche loro sanno come possa essere finita la loro cultura calcistica, è un mistero. Finisce ufficialmente nel ’56, ma in realtà finché Puskas continua a giocare con la maglia ungherese il calcio è vivo e vedrà il suo declino inesorabile dal sessanta in poi.
Nella primavera del 1956, in Ungheria si fecero sentire le conseguenze del XX Congresso del PCUS, dove si esaltava la figura di Stalin, la collettivizzazione delle terre e le epurazioni compiute dal regime, ma non parlava dei milioni di morti provocati dalla collettivizzazione forzata né dei processi pilotati con cui Stalin si era sbarazzato di dirigenti politici come Bucharin o gli assassini commissionati per eliminare oppositori come Trotsky. Durante il Congresso, Kruscev, il segretario del partito, con il famigerato rapporto segreto chiamato “cartella rossa” denunciò violenze, purghe e limitazioni alla libertà imposte da Stalin, mentre alcuni cose rimanevano totalmente nell’ombra.
Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznan in Polonia degenerò in scontri a fuoco localizzati tra unità della polizia politica e gruppi di dimostranti. La stessa notte gli avvenimenti precipitarono: su pressione dei sovietici, il governo presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs venne sciolto. Quando Imre Nagy salì al governo il Partito comunista cessò “virtualmente” di esistere e si tentò di mediare fra il popolo insorto e l’alleato sovietico attraverso la risoluzione di alcune richieste da parte dei manifestanti e dei Consigli operai e contadini: abolizione della polizia segreta, il ritiro dei sovietici, la cessazione del fuoco e l’uscita dal patto di Varsavia.
Quando il calcio cavalca la Storia
Nel frattempo l’Honved era attesa a Bilbao per una partita di Coppa Campioni, ma nelle strade di Budapest stanno sparando a vista, operai e soldati. Non c’è più fuoco amico-fuoco nemico: è qui che entra in gioco la magia della popolarità di Puskas, la bandiera ungherese. La preoccupazione dei suoi compagni era talmente alta che gli proposero di posizionarsi in testa al gruppo, e scendere dal pullman ad ogni angolo della città, cosicché la gente avrebbe potuto riconoscerlo. Grazie a Puskas l’Honved riuscì a uscire dalla città. Al confine con l’Austria però (dove la squadra avrebbe dovuto prendere l’aereo per la Spagna) i doganieri non riconobbero Puskas, data la notizia (falsa) trapelata e diffusasi nella capitale, che sosteneva la morte del campione al fianco degli insorti. Ma l’Honved passò comunque al confine e arrivò a Bilbao.
C’è una teoria che riguarda il passaggio: Puskas avrebbe palleggiato per due minuti di seguito con un qualsiasi oggetto rotondo fino a convincere le guardie.
Mentre l’Honved perse in Spagna ai danni dell’Atletico Bilbao, la rivoluzione in Ungheria venne sedata. Fra il 4, giorno dell’entrata dell’Armata Rossa a Budapest, e il 7 novembre, con la restaurazione di un governo filo-sovietico capeggiato da Jànos Kàdàr, i manifestanti vennero duramente repressi ed entro il gennaio del 1957, lo stesso Kàdàr aveva posto fine alla rivolta.
Sebbene l’Honved fosse caduta a Bilbao, perdendo 3-2 in Spagna e pareggiando 3-3 in Belgio (campo neutro a causa della rivoluzione ungherese), aveva dato prova di tutte le proprie capacità tecniche. Puskas aveva segnato il gol del pareggio a Bruxelles, riaccendendo le speranze dei tifosi e di una nazione, ma invano. Il calcio Europeo a questo punto richiede a gran voce l’attaccante magiaro che si rifiuta di tornare in patria: le grandi e “gettonate” piazze come Manchester United, Inter e Juventus si fanno avanti, ma le frontiere sono chiuse. Puskas, ingrassato di 15 kg, passa così al Real Madrid di Bernabeu, durante il regime autoritario di Francisco Franco. 242 gol in 262 partite fra i 32 e i 37 anni. Avrà il totale appoggio di Alfredo Di Stefano, la “saeta rubia”, con cui formerà la più grande coppia d’attacco della storia del calcio.
Dopo la straordinaria carriera da giocatore, Puskas fa altrettanto da allenatore: Australia, Grecia. Vince tutto anche con squadre mediocri, ha in mano tutti i giocatori sia fisicamente sia psicologicamente.
Torna in Ungheria con il passaporto spagnolo e gioca una partita amichevole nello stadio che li aveva visti vincitori al ritorno contro l’Inghilterra per 7-1. Piange tutto il tempo, è tornato a casa.
Fine di una leggenda
Piano piano, però, tutti i suoi ricordi cominciano a svanire, l’Alzheimer prende il sopravvento, e le coppe, i campionati, la moglie, i suoi compagni diventano figure sfuocate della sua memoria. Nel novembre del 2006 il cuore cessa di battere, Puskas se ne va e con lui un pezzo di calcio, ma non solo. Puskas ha spiegato calcio in Ungheria, Madrid e Atene e in qualunque rettangolo verde che abbia solo toccato. E’ stato sepolto nella cattedrale regia di Budapest, privilegio destinato solo a santi e regnanti.
Puskas ha scritto la storia e ha vissuto nella Storia. Sarà sempre ricordato nelle città in cui ha elargito le sue teorie, le sue idee innovatrici e la sua voglia di giocare a “futball”. E’ paradossale che un personaggio così si sia addormentato a causa di una malattia come l’Alzheimer, che sbiadisce l’identità di un uomo, ma che non può essere dimenticata da tutto il mondo del calcio. Quel numero 10, sempre pettinato e timido, che la storia l’ha scritta veramente.
“Dallo scudetto ad Auschwitz”
Il libro di Matteo Marani, giornalista e direttore del “Guerin Sportivo”, tifoso bolognese e collaboratore delle più grandi testate giornalistiche italiane, “Dallo scudetto ad Auschwitz” racconta la storia di Arpad Weisz, il maestro che ha portato il Bologna in cima all’Europa. La parabola dell’allenatore ungherese oscilla tra grandi momenti di gloria e gratificazione e altri infernali, come l’espulsione dall’Italia e la successiva deportazione ad Auschwitz. Matteo Marani è riuscito a riportare in un libro la storia perduta di un allenatore fantasma, a causa delle leggi razziali del ’38 che hanno spazzato via come polvere le tracce degli ebrei presenti in Italia, cancellandoli dal registro anagrafico e statale. Attraverso la carriera (breve) scolastica del figlio di Veisz (con la “v”, perché la “w” non poteva più esistere), Roberto, arriva agli amici ed ex compagni di classe, ricostruendo così la storia del padre che va “dallo scudetto ad Auschwitz”.
La storia del calcio ungherese è gelosamente custodita nel “boronzo 6:3” (locale ungherese), in onore della partita vinta dalla Grande Ungheria a Wembley contro gli inglesi. Il locale si trova nel Kispest, quartiere ungherese (dove ha esordito Ferenc Puskas); nel “6:3” sono appese le foto di Arpad Weisz, il più grande allenatore ungherese e con lui vive la memoria di un maestro di vita e di sport, anticipatore del calcio moderno.
Nasce a Solt, il 16 aprile 1896. Studia alla facoltà di Giurisprudenza di Budapest e gioca nel Torekves, che in ungherese significa “sogno ad occhi aperti”. Da giocatore conduce una buona carriera nelle fila della squadra ungherese. A fine carriera si trasferisce in Uruguay, in una sorta di anno sabbatico di cui però, sfortunatamente, si conosce ben poco. Quando Weisz torna in Ungheria, comincia la sua carriera da allenatore.
L’Ambrosiana di Weisz
La sua prima squadra è l’Internazionale (l’attuale Inter), che però si vide costretta a cambiare in “Ambrosiana”, dato il periodo scomodo per il nome originario. Si trasferisce quindi nella Milano degli anni venti e trenta, figlia di Marinetti e del Futurismo, che diventerà una sorta di laboratorio scientifico, un’officina professionale ed intellettuale, come sostiene Matteo Marani.
Agli ordini dell’Ambrosiana fa esordire il “Balilla”, ragazzino gracile e timido, ma con un bel volto e ottime potenzialità. Arpad Weisz è il maestro di Giuseppe Meazza, l’atleta del fascismo. L’Inter vince il campionato quando Weisz aveva appena 34 anni, il più giovane allenatore vincente. In quegli anni scrive, insieme a Molinari, “Il manuale del giuoco del calcio”, con prefazione del grande Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale italiana vincente dei mondiali del ‘34 e ‘38.
Il fantastico Bologna
Dopo essere stato allenatore del Bari, conquistando la salvezza, si trasferisce a Bologna, insieme alla sua famiglia. Vivono in Piazza Saragozza, a due passi dallo stadio bolognese. I suoi due figli sono nati in Italia, più precisamente a Milano e battezzati, poiché i Weisz, in fondo, non sono ebrei ortodossi. Lo stadio è bellissimo, costruito in omaggio a Mussolini, 50.000 posti. All’interno vi è una statua equestre celebrativa e una torre maratona con issata in alto una bandiera su cui sfoggia il simbolo della Marina Militare. Dentro la torretta, invece, si trova una statua particolare, l’Atena Nike, la dea con il littorio. La prima pietra del nuovo stadio è “posata” personalmente dal re Vittorio Emanuele III.
Cresce fra quelle mura una squadra forte e organizzata, che vedrà giocare atleti come Sansone e Fedullo, insieme ad Angeloni. Il Bologna, grazie a Weisz, vince lo scudetto del 1936, il 10 maggio: mentre Vittorio Emanuele III diventava imperatore d’Etiopia, i rosso-blu cucivano sulla maglia il loro scudetto. Si ripeterà poi l’anno successivo, mostrando eccezionali capacità tattiche e grazie soprattutto a Fiorini, esterno sinistro offensivo, forgiato da Weisz (detto “il nuovo Meazza”), che morirà nel 1944, ucciso da due colpi di pistola da un partigiano. Fiorini aveva aderito alla Repubblica di Salò, ed era stato giustiziato.
Arpad era uno che dava tanto quando c’era da dare, creava dal niente giocatori che a prima vista potevano sembrare insignificanti, era fenomenale, sostiene Federico Buffa nell’intervista per Totalita.it.
Il Bologna nel 1937 partecipa anche all’EXPO di Parigi, l’attuale Champions League, dove incontra il Chelsea. Gli inglesi erano considerati i più forti, organizzati e completi giocatori del mondo, prima di incontrare la squadra di Weisz. Finisce 4-1 per il Bologna e il suo allenatore ora viene riconosciuto come il più grande allenatore d’Europa. “Torekves”: il suo sogno ad occhi aperti si era così avverato. C’è stata solo una cosa che ha permesso all’allenatore di andare avanti in un clima così rigido ed instabile: l’amore per il calcio, quel gioco inventato mezzo secolo prima dagli inglesi e che lui ha contribuito fortemente a migliorare. Ogni volta che la Storia gli si è posta come ostacolo, lui è andato al campo, sul campo a lavorare, per distrarsi.
La sua vita cambia drasticamente quando cambia la Storia, crudele e meschina, così arbitraria che quando un individuo la incontra – dice Federico Buffa in “Federico Buffa racconta Storie Campioni: Arpad Weisz” – se ne è vittima, non lascia alcuna opportunità.
La trasformazione della Storia
Durante il regime nazista, fondato da Hitler si diffuse, grazie ad un’approfondita e feroce propaganda fatta ad opera d’arte, l’ideologia antisemita che prese campo dopo la famigerata “Kristallnacht”, la notte dei cristalli del 1938. Gli ebrei cominciarono a essere ghettizzati nelle società e piano piano vedevano sfumare qualsiasi possibilità di costruire una normale vita in Germania e non solo. Nelle città tedesche in ogni angolo si poteva scorgere cartelli e scritte sul muro riportanti “Achtung Juden”: attenzione ebrei.
Hitler, intanto, stava dando il via al suo progetto denominato “soluzione finale”, che prevedeva l’annientamento della popolazione ebraica. Anche in Italia si sta diffondendo l’idea della razza superiore, iniziata durante la campagna militare in Africa alla ricerca di “un posto al sole”. Gli ebrei stranieri, che si erano trasferiti nella penisola dopo il 1933, con un mandato promulgato da Mussolini, devono lasciare il paese. La famiglia Weisz non vi rientrerebbe; ma il capo dello Stato, di mano propria con una penna, cambia il documento, anticipando la data al 1919, e sì, la famiglia ungherese ci rientra. In patria non si può tornare, perché le leggi anti-razziali sono ancora più dure che quelle italiane, così la famiglia Weisz con un treno si trasferisce a Parigi. Arpad era già stato due volte in Francia, alle Olimpiadi del ’24 e all’EXPO, e adesso, avrebbe visto la città francese per l’ultima volta. Prova così a tornare ad allenare, cerca una squadra e trova la Red Star, militante in seconda divisione, ma il matrimonio non funziona. L’elemento inspiegabile di questa parte della sua vita è proprio la scelta di Weisz di rimanere in Europa; dopo l’anno in Uruguay aveva infatti mantenuto i rapporti con i sudamericani e avrebbe potuto prendere una nave da Marsiglia e trasferirsi nel continente d’oltreoceano, ma lui era sceso su questo pianeta per allenare, per insegnare calcio. Così, l’allenatore più grande d’Europa era ora disponibile.
Il rifugio olandese
Si fanno avanti gli olandesi del Dordrecht, paese in cima ai Paesi Passi, che ingaggiano il magiaro. Di nuovo un treno, stavolta per l’Olanda, dove resteranno per due anni. Siamo nel 1940 e Arpad Weisz allena questa piccola squadra di studenti. Si allena con loro, corre a fianco dei propri giocatori e indirizza il calcio olandese verso la via del successo. Il primo anno raggiunge l’inizialmente insperata salvezza, i due anni successivi conquista il quinto posto in classifica, umiliando in due gare addirittura la capolista, il Feyenoord, ritenuta imbattibile. Il rapporto con tifosi e società andava alla grande.
L’Olanda non ha alcun rapporto politico con la Germania di Hitler, ma sono vicine di casa, e i tedeschi sarebbero potuti arrivare in un breve tempo: Blitzkrieg, guerra lampo. I tedeschi sanno subito dove si trova Weisz, esposto notevolmente dato il suo incarico di allenatore.
Quando nel giugno 1941, in una riunione nella lontana Berlino a cui hanno assistito tutti i principali esponenti nazisti, fu diffusa una circolare distribuita tra i ministeri e uffici delle SS, il genocidio sistematico degli ebrei da Est a Ovest iniziò inesorabilmente. Tutto programmato nei modi più dettagliati possibili: gli ebrei sarebbero stati concentrati in una zona particolare; Auschwitz venne quindi inaugurato e la “soluzione finale” ebbe inizio.
Così, nel 1942 la Gestapo, la polizia tedesca, bussa alla porta ed i Weisz non possono più scappare dalle trappole burocratiche. Arpad non può più allenare ed è costretto a spiare i suoi ragazzi da uno spiraglio dello stadio del Dordrecht, una passione con cui di petto affronta la Storia. Vengono successivamente trasferiti al campo di concentramento olandese, Westerbork,un campo di “passaggio” in attesa di un futuro sconosciuto, ma tristemente immaginabile. Ci sono botteghe, un ospedale, librerie, perfino un campo da calcio. Non si sa se Arpad ci abbia mai messo piede. Il calcio, che prima era stata la sua vita, adesso non conta più niente.
Weisz lì incontra qualche giocatore dell’Ajax, la “squadra del ghetto”, e chissà, se non fosse finita com’è finita Arpad sarebbe diventato molto probabilmente l’allenatore di quella squadra.
Un altro treno, l’ultimo, in direzione Auschwitz-Birkenau, il secondo un vero e proprio mattatoio. La moglie di Weisz e i suoi due figli sono direttamente deportati a Birkenau, in un venerdì dell’ottobre 1942. Il lunedì successivo sono invitati a “farsi una doccia”, ma non la trovano esattamente come se la aspettavano. Dai tubi esce acido cianidrico in cristalli, che prima uccide bambini e anziani, poi il resto, destinato a sopravvivere solo poco più di dieci minuti. Si forma all’interno della doccia una piramide umana che tende al soffitto, in cerca disperata di aria “buona”. Dopo la doccia, la stanza viene sgomberata, i corpi ammassati e un altro gruppo di ebrei viene invitato. 4000 persone ogni giorno morivano a causa delle docce.
L’ultimo treno
Arpad Weisz inizialmente fu trasferito in Alta Slesia, dove le sue braccia servivano in fonderia, ma poi arriva ad Auschwitz, dove, in una fredda mattina muore. E’ il 31 gennaio 1944.
Federico Buffa racconta che il corpo e la mente di Arpad non andavano più allo stesso tempo: il corpo viveva, la mente non più. Non voleva più vivere in quel mondo, e raggiungerà, infatti il fisico ad Auschwitz.
Quel corpo che tanto lo aveva sostenuto durante il proprio lavoro, sul quale aveva lavorato tanto e su cui era stato attento, adesso era diventato un nemico. Il suo corpo da atleta, paradossalmente lo sta condannando a vivere una vita mostruosa, inspiegabile.
Solo il fisico lo teneva sveglio: da un anno e mezzo aveva perso la famiglia, da due anni circa il calcio.
Eppure solamente pochi anni prima era il più amato allenatore d’Europa, con due sogni: la famiglia ed il calcio. Il suo Torkevesadesso non esisteva più.
Intanto il mondo stava cambiando: Mussolini era caduto e poi liberato dai nazisti. La Germania perdeva centimetro dopo centimetro la sua campagna militare in Russia, cedendo prima Stalingrado e poi Leningrado, favorendo la reazione sovietica. Gli americani sbarcavano in Sicilia ed in Normandia, gli aerei dell’armata d’oltreoceano volavano sopra i campi di concentramento fotografando ciò che stava succedendo nei lager. Ma Arpad, dice Marani, non aveva la forza di guardare in alto, era un uomo azzerato, disfatto. Era impossibile rimanere così tanto tempo in un luogo simile senza perdere l’anima e lui, il grande allenatore di Inter e Bologna, l’aveva smarrita.
La cultura in quegli infernali sette anni ha chiuso gli occhi, ha fatto passare tutto; se non fosse stato così, oggi potremmo conoscere la storia di Arpad Weisz grazie a suo figlio, Roberto, che avrebbe mantenuto i contatti con i suoi amici e compagni di classe, tramite lettere e, magari, ci avrebbe potuto svelare qualche trucco del grande e vincente allenatore ungherese che ha anticipato il calcio professionistico di cinquant’anni, ma purtroppo sono curiosità e domande destinate a rimanere sotto la polvere della storia di quei terribili anni.
“Un calcio alla storia”
Ferenc Puskas e Arpad Weisz sono gli esempi più lampanti di come la passione per uno sport come il calcio possa andare ben oltre la Storia in cui si ritrovano. Quello che non è possibile però, è sfuggire agli eventi. Immaginiamo se Arpad Weisz fosse riuscito a tornare in Uruguay, dove lo aspettavano le squadre più forti di quegli anni (ricordiamo che la nazionale uruguagia aveva vinto il mondiale del 1930), cosa sarebbe successo? Le leggi razziali, l’ideologia antisemita mista di antisionismo e antigiudaismo, hanno prodotto quanto nessuno osa credere. L’olocausto ha finito per uccidere sei milioni di persone, un milione delle quali nel posto in cui si trasferirono i Weisz, tra lo scetticismo e l’incredulità del mondo.
Qualsiasi personaggio della storia calcistica che abbia avuto il coraggio di affrontare i fatti e gli avvenimenti a lui vicini, ha contribuito a cambiare la Storia con la “s” maiuscola, quella vera; una mano sottile e invisibile che trascina via tutto ciò che, arbitrariamente, decide. Gli uomini cambiano il tempo, lo fanno proprio. Puskas, il grande numero dieci ungherese, è sfuggito dalla rivoluzione del ’56, non è tornato in patria quando richiamato dal regime, chissà cosa sarebbe accaduto se lo avesse fatto. Weisz, vittima della realtà crudele e meschina, è stato il più grande allenatore di tutti i tempi, più di quelli che riscaldano le panchine oggi giorno, quelli che riempiono le prime pagine dei quotidiani, che appaiono in TV; come sarebbe se uno di loro improvvisamente sparisse? A Weisz è successo.
Bibliografia:
-Federico Buffa, Federico Buffa racconta storie di campioni: Ferenc Puskas, Sky Sport, 2015
-ID., Federico Buffa racconta Arpad Weisz, Sky Sport, 2014
-Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz, Imprimatur, 2007
-Valerio Castronovo, MilleDuemila, un mondo al plurale, La Nuova Italia, 2014
-Wikipedia, Rivoluzione Ungherese
Violetta Valéry ritorna nel suo tempo: una Traviata ottocentesca per il Maggio Musicale
Firenze: una Butterfly d'eccezione per il centenario pucciniano
Madama Butterfly tra Oriente e Occidente: Daniele Gatti legge il capolavoro di Puccini
Una favola che seduce e incanta: Cenerentola di Rossini trionfa al Maggio
Un lampo, un sogno, un gioco: Gioacchino Rossini, Manu Lalli e l'incanto di Cenerentola