Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
I Pupazzetti di Erhard Schoen
In guisa di preambolo: non trascurano le mensole della mia ridotta stamberga in guardia alle lagune di albergare qualche volumetto di Trilussa. Non essendo mai stato in quel di Roma Caput Mundi mi diletto in ogni caso di recitare ad alta voce e per puro giuoco le favole in poesia del grande autore che ancora vien detto dialettale e poco comprendo il perché. Avviene questo quando in certe albe di primavera i raggi dell’Aurora carezzano le creste affusolate dei colli Euganei ed il cielo rosato specchiantesi sulle acque della laguna pare d’un tratto voler disvelare per miracolo tutti i misteri dell’universo. È questo dunque il filo che malgrado tutto, a dispetto delle distanze, delle fatiche di farsi viatore, della tristezza del sapere che la gran Villa di Cesare, Augusto e Virgilio è ridotta a metropoli, mi lega a quel mondo mai visto e che vedo sotto una lente che rende il paesaggio delicato e indimenticabile. La lente della poesia.
Rammento ad alta voce o recito leggendo guardando dalla finestra come il monaco sorridente dipinto da Carl Spitzweg la favola dell’Aquila e del Gallo, quella del Ciuco bastonato e del Cavallo, e quella dello spaventapasseri e davvero mi pare, a dispetto di ogni quesito grammaticale e di ogni buon senso, che la lingua di Properzio e di Ovidio altro non sia ora che il grazioso romanesco dettato da Trilussa. Un poco come se, dipartitisi da Roma e dal suo Agro e dai suoi Castelli, i fantasmi togati del glorioso passato, il latino che rimane fosse quello parlato dai bravi pastori e dagli orticultori che ancora colonizzano in anfratti, dai quali il tempo pare sospeso dal suo scorrere, quel paesaggio fatale ed ostile, rude e delicato. Un latino curiosamente pronunciato e sbrigativo, aspro nelle sentenze e capace di esprimere tutta la poesia di quei luoghi ancora abitati da ninfe delle fonti e da Dei indigeti e nascosti. Spesso le une e gli altri dissimulatisi di poi sotto il velo di vergini e cappe di monaci e divenuti i santi cristiani della devozione rurale.
Ma divago come cullato su di una gondola sbrecciata. Piuttosto leggevo che l’ammirato Trilussa, per una edizione delle sue poesie, con la nonchalance di chi non si sente oppresso da alcun peso di colte riuscite o di stravagante perfezionismo, si fosse dato a “pupazzettare” vale a dire ad illustrare con figurine disegnate di sua mano le favole in poesia del suo volume. Inutile rammentare qui al lettore che io tale volumetto che immagino sia oggi prezioso mai ho potuto ammirare, tuttavia immagino dai versi del poeta che questi pupazzetti dovessero essere aggraziati come le sue favole. Di qui mi son dato a volerne sapere di più ed ho scoperto quanto segue e che voglio esporre in guisa d’una brevissima storia che dilati il paesaggio di queste piccole figurine ausiliarie.
Le figurine dei raffinati pupazzetti tetragoni ad uso del canone di proporzione del Dürer esercitano su chi scorre le pagine del genio nordico un fascino condito della graziosa gioia che si prova ad ogni invenzione quando essa unisca la disarmante semplicità all’effettiva utilità. E di quest’ultima anche un modesto disegnatore se ne avvede una volta che prenda la matita in mano e abbozzi qualche copia e variazione su dette figurine.
Fatte di triangoli sottili come solo lo possono essere delle scarne fette di torta da elargire ad un ghiottone convalescente sono le figurine innestate nel suo trattato dal famoso architetto di Piccardia, Villard di Honnecourt. L’Autore del “livre de portraiture” compone questi lunghi triangoli con una grazia tutta medievale in pupazzetti che dell’epoca tesa ai pinnacoli gotici mutuano lo slancio ed una corporeità svaporante in filigrana. Ben diversi da quelli del genio di Norimberga nei quali la robusta volumetria dei parallelepipedi e prismi che simulano testa, torace braccia e gambe ci conferma quel nuovissimo accento posto sulla compagine di ossa e carne e sangue che è segno esplicito del ritorno d’un canone classico di proporzione entro il tempo rinascimentale. Ai pupazzetti del Dürer, in ogni caso non estranei allo slancio e all’eleganza della figura, si può associare la sana vigorosa corporeità di un lanzichenecco, e a quelli dell’architetto piccardo la gioiosa levità di un armigero delle favole bretoni avviato, oltre le nebbie, verso l’Avallon. Oppure, rammentando il Papini geniale indagatore dell’arte fiorentina, al primo associando l’imitazione del Padre ed al secondo dando piuttosto lo slancio ascetico del Figlio.
Possono destare interesse i rudimentali figurini filiformi del Bosse e poi quelli del trattatista Erhard Schön, entrambi compatrioti e poco distanti nel tempo dal Dürer. Lo Schön esercita degli esperimenti grafici per descrivere il moto delle membra e delle giunture che non possono non ricordare gli esperimenti cronofotografici di Etienne Jules Marey. E qui pare quasi essersi avverato uno scambio di colore al volgere dei secoli: il filiforme figurino del Tedesco è disegnato in nero sul foglio bianco, all’inverso l’atleta di Marey veste una tuta nera e si staglia su di un fondo nero avendo delle lunghe tracce candide sui fianchi di torso braccia e gambe. Le cronofotografie appaiono allora come fogli neri sui quali trova impressione il moto di un filiforme figurino bianco.
In ultimo a questo pupazzetto avviene pure di uscire dall’ombra del suo modesto ufficio di ausilio per schizzi e di ritrovarsi nelle soleggiate distese dell’arte tout cour. È Salvador Dalì, il cavaliere dell’avventura surrealista, ad elevare il povero figurino grafico al rango di un primattore in alcuni suoi splendidi disegni. Con due livree, dato che in Ispagna “noblesse oblige”: nella prima esso si compone di un articolato ingegnoso insieme di piramidi e tronchi di piramidi ben pinnacolate che si compenetrano. Ne risulta un pupazzetto slanciato eppure agile e vibrante come un eroe della corrida. Nella seconda livrea il figurino appare come disegnato dalla mano di un vasaio con cerchi concentrici continui che sagomano, quasi senza mai staccare la punta della penna dal foglio, gambe, bacino torso e capo con un moto di vite elicoidale. Le braccia vengono poi disegnate col procedimento medesimo avendo intermesso due dischi alla connessione fra braccia e spalle per dare alla livrea un aspetto marziale. Slanciati e fieramente nobili, questi ultimi figurini campeggiano nei fantastici disegni di Dalì e qua e là danno un corpo incorporeo e davvero di favola allo sconsolato e spirituale cavaliere Don Quixote de la Mancha.