Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Pietro Mascagni
Il 2 agosto 1945 moriva a Roma Pietro Mascagni: l’artista che era stato in un certo senso il simbolo della musica italiana nell’ultimo decennio dell’ Ottocento se ne andò in silenzio, ignorato dalle autorità dell’epoca (cosa ignobile e incomprensibile anche tenendo conto della drammaticità del momento storico) ma non dal suo pubblico che volle in occasione dei funerali tributargli un ultimo, caloroso abbraccio.
Il suo nome resta legato soprattutto, anche se non esclusivamente, al capolavoro nato dall’incontro con un grande siciliano: Giovanni Verga.
Difficile immaginare un carattere più “siciliano” di Verga e uno più “toscano” di Mascagni: ombroso, riservato, scontroso e amaro il primo, aperto, estroverso e “guascone” il secondo. Eppure, il loro incontro, che non fu peraltro affatto pacifico e finì pure in tribunale per una causa sui diritti d’autore (la “religione della roba” Verga non la praticava solo in letteratura) portò alla nascita di uno dei più straordinari capolavori del teatro musicale europeo di fine ottocento. Non solo; ma fu anche un ulteriore, felicissimo incontro tra letteratura e musica, che in un contesto sia italiano che Europeo ha dato esiti altissimi sin dalla nascita del melodramma: Mozart e da Ponte (Don Giovanni), Beethoven e Schiller (Egmont), Boito e Goethe (Mefistofele), Verdi e Shakespeare (con la mediazione di Boito; Otello e Falstaff), Puccini e Dante (Gianni Schicchi), solo per fare alcuni esempi. E la coppia Mascagni – Verga sta benissimo in questo contesto, sia per la statura dei due artisti, sia perché Cavalleria Rusticana, ebbe, al suo apparire, un trionfo di proporzioni per noi inimmaginabili: Mascagni fu fatto, in tutta Europa, persino in Austria e in Germania, oggetto di un culto paragonabile a quello di una rock star di oggi: pettinatura alla Mascagni, scarpe alla Mascagni… provocando un travaso di bile a Gabriele d’Annunzio che lo definì il bestiale artiere, salvo poi, più tardi, riconciliarsi con lui per Parisina.
Cavalleria Rusticana, dalla novella al dramma
Il teatro non fu il genere prediletto da Verga, che lo riteneva inferiore al romanzo per via dei vincoli e dei condizionamenti intrinseci al genere stesso; in un’intervista resa a Ugo Ojetti nel 1894 lo scrittore siciliano rimproverava al teatro: “la necessità di scrivere non per un lettore ideale come avviene nel romanzo, ma per un pubblico radunato a folla così da dover pensare a una media di intelligenza e di gusto (…) E questa media ha tutto fuori che gusto e intelligenza; e se ne ha, è variabile col tempo e col luogo. Egli non scrisse per la scena soggetti originali, ma adattò alcune novelle: la prima fu proprio Cavalleria, nel 1884, quattro anni dopo l’uscita in forma di novella. Rispetto al testo narrativo, il testo drammatico elimina la descrizione del duello finale, troppo crudo per essere trasposto sulle scene; aumenta il numero dei personaggi, con una piccola folla che si incrocia in modo apparentemente casuale, interrompendo e mescolando i discorsi proprio come nella realtà, e senza disdegnare caratteri pittoreschi come zio Brasi, eliminato nella versione mascagnana.
Nel 1880 infatti nella raccolta Vita dei Campi comparve la novella Cavalleria Rusticana: un vero e proprio “fatto diverso”, ovvero un fatto di cronaca, sembra un fatto accaduto nel paese siciliano di Vizzini. Il racconto, estremamente sintetico, presenta il tipico triangolo costituito da Turiddu, che ama Lola, la quale però, mentre il fidanzato è a fare servizio militare, sposa il ricco carrettiere compare Alfio. Turiddu, un po' per delusione, un po' per far ingelosire la fidanzata, flirta con Santuzza: nel racconto non si capisce bene fino a che punto si spingano le cose tra Turiddu e Santuzza. Rimane il fatto che Lola, ingelosita a sua volta, riallaccia l'antica relazione (a questo punto adulterina) con Turiddu, e Santuzza, per vendicarsi, rivela il tutto ad Alfio. Seguono il duello e la morte di Turiddu.
Il dramma rappresentato trionfalmente a Torino nel 1883 con Eleonora Duse come Santuzza amplifica leggermente la vicenda mantenendone però inalterato lo schema di base. La relazione fra Turiddu e Santuzza diventa più intensa e drammatica, vengono introdotti alcuni personaggi secondari e maggior rilievo ha anche la madre di Turiddu, Lucia, che nel racconto era appena una comparsa. Santuzza diventa chiaramente la “sedotta e abbandonata” che cerca conforto nella madre di Turiddu, e la sua “spiata” a compare Alfio, più che un gesto di vendetta, come appariva nella novella, sembra qui una sorta di reazione disperata dopo un inutile colloquio con Turiddu di cui la donna si pente poco dopo: Santuzza (a compare Alfio) “Non mi ringraziate, no, chè sono una scellerata!”.
Compare Alfio: “Scellerata non siete voi, non siete voi. Scellerati sono coloro che ci mettono questo coltello nel cuore a voi e a me”.
Per il resto anche il dramma teatrale mantiene la sua connotazione di vicenda che precipita velocemente verso la catastrofe. Qui Verga aggiunse un elemento che nella novella mancava: subito dopo il duello una donna del paese torna in scena gridando: “Hanno ammazzato compare Turiddu”.
E su queste parole cala la tela.
Dal dramma al melodramma
L’elemento che doveva attirare maggiormente l’attenzione del musicista era però la centralità della passione amorosa, assai più accentuata che nel racconto dove non si parla, ad esempio, di un “fallo” di Santuzza; elemento che Verga lascia peraltro appena trasparire, talvolta non senza ironia (“Non temete, non sono ladra, anche” dice Santuzza a Mamma Lucia), mentre nel libretto è ulteriormente accentuato per aumentare il pathos, la disperazione e la solitudine della protagonista. Il dramma trionfò grazie alla magistrale interpretazione di Eleonora Duse; “Vidi per la prima volta Cavalleria Rusticana a Milano” – affermò Mascagni – “quando ero studente, al teatro Manzoni con Flavio Andò che recitava in modo meraviglioso. Era siciliano e la sua origine lo aiutava moltissimo in questa interpretazione”. Quando, nel luglio 1888, la casa editrice Sonzogno bandì il celebre concorso per un’opera in un atto, inteso ad incoraggiare i compositori esordienti, Mascagni si ricordò di quella rappresentazione e decise il suo soggetto, abbandonando la composizione dell’opera giovanile, il romantico Guglielmo Ratcliff, che vedrà la luce alcuni anni più tardi. Nel maggio del' '89 la partitura era pronta, appena in tempo per partecipare al concorso che si concluse con la sua vittoria; e così nel marzo del' '90 il compositore poteva scrivere a Verga chiedendo il suo consenso per la rappresentazione dell’opera; consenso che fu accordato; del resto lo scrittore aveva in precedenza risposto a Mascagni che ben volentieri si sarebbe prestato lui stesso per la riduzione a libretto. Un clima idilliaco che però, com’è noto, non durò, per una questione di “roba”: dopo il trionfo Verga pretese una percentuale maggiore di quella accordagli, e la cosa si trascinò a lungo in tribunale.
Mascagni, tuttavia, preferì servirsi, per la trasformazione del dramma in libretto d'opera, di un amico, il livornese Giovanni Targioni-Tozzetti, che a sua volta si associò come collaboratore Guido Menasci. I due librettisti che agirono per una volta a stretto contatto con il compositore (Mascagni, contrariamente a Puccini, aveva di solito il difetto di subire i librettisti piuttosto che di guidarli) si attennero fedelmente al testo verghiano di cui intuirono l'eccezionale carica drammatica. Eliminarono i personaggi secondari e tutto quanto potesse esserci di dispersivo. Semmai una novità del libretto, rispetto al testo base, è data dall'introduzione di un elemento tutt'altro che trascurabile, specie per la morale dell'epoca: la “perdita dell'onore” da parte di Santuzza, la quale confessa il punto “priva dell'onor mio rimango (...) Turiddu mi tolse l'onore”.
Per quanto riguarda la versificazione i due librettisti adottano un linguaggio ancora più conciso e pregnante di quello verghiano: se non mancano momenti più melodiosi come le arie di alcuni protagonisti (Lo stornello di Lola fior di giaggiolo o anche l'aria del carrettiere di compare Alfio), soprattutto nei duetti il linguaggio e le battute si fanno serrati e incalzanti: ad esempio lo scambio di battute tra Santuzza e Alfio, precedentemente citato, nel libretto dell'opera: “Infame io son che vi parlai così”. Alfio: “Infami loro: ad essi non perdono”.
i librettisti riescono dunque a cogliere perfettamente lo spirito del testo verghiano adattandolo però alle esigenze del dramma in musica con una sobrietà che purtroppo Mascagni non troverà più nei collaboratori successivi, soprattutto D'annunzio che con Parisina lo costringerà a musicare un dramma di oltre cinque ore.
Il melodramma: struttura e segreto del successo
Non è facile definire cosa sia il verismo in musica, anche perché non c’è accordo tra i musicologi sull’argomento. C’è pure chi lo nega, o chi, forse non del tutto a torto, sostiene che più che di verismo musicale si dovrebbe parlare di alcune opere veriste, e di momenti e situazioni veriste in altre. Comunque sia, la “Giovane Scuola” a cui si fanno aderire Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano e, sia pure con giustificate riserve e distinguo, Giacomo Puccini (per limitarci ai nomi maggiori) fu soltanto uno degli indirizzi musicali che caratterizzarono, a partire all’incirca dagli anni ’80 dell’ottocento, il dopo Verdi: certo fu quello di maggior successo e di maggior presa sul pubblico, tanto che i musicisti di altre correnti, come la “generazione dell’’80” sparirono quasi tutti ben presto dai palcoscenici, e non sempre giustamente. Si tratta di “etichette” e tendenze artistiche dai confini spesso incerti e oggetto di grandi discussioni, che riproducono in un certo senso il clima di incertezza e di sperimentazione che caratterizzò l’ultimo scorcio della vita musicale italiana del diciannovesimo secolo. Il problema, come bene aveva intuito già nei primi anni ’60 dell’800 il poeta e musicista Arrigo Boito, destinato tra l’altro a diventare, malgrado l’orientamento artistico affatto diverso, grande amico di Verga, era quello di rinnovare dalle fondamenta una forma artistica veneranda sì, ma ormai vetusta: il melodramma, che si ripeteva in Italia con schemi e formule sia letterarie sia musicali ormai scadenti, mentre oltralpe si agitavano nuovi fermenti e nuove concezioni; prima fra tutte, quella di Wagner, di cui Boito aveva intuito, pur non senza riserve, tutta la portata rivoluzionaria.
Grazie proprio a Boito, delle innovazioni wagneriane tenne conto anche l'ultimo Verdi, quello di Otello e Falstaff: queste due opere segnarono le nuove vie per il melodramma italiano, che i nuovi compositori non potevano ignorare.
L’aspetto più vistoso del tardo stile verdiano, a cui compositori “veristi” dovevano in larga misura rifarsi, consisteva in un nuovo equilibrio tra strumentalismo e vocalità: il canto strofico poi, che nelle sue categorie e schematizzazioni tradizionali era stato alla base dell’opera italiana, non spariva del tutto ma subiva una significativa erosione. Non c’era però solo questo, ma anche un rinnovato rapporto tra musica e letteratura, e in questo l’apporto di Boito fu fondamentale: il testo del melodramma, il famigerato “libretto”, non doveva avere più soltanto funzionalità drammaturgica, anche a costo di versi orripilanti (chi non ricorda l’orma dei passi spietati del verdiano Ballo in Maschera ) o di situazioni ripetitive di rapimenti, figli perduti e ritrovati, amori impossibili e via…cantando, ma avere una dignità letteraria e una qualità poetica che mirasse all’armonia, alla fusione tra parola e musica. Per fare questo, l’opera lirica italiana si incontrò con la grande letteratura anche – e soprattutto – contemporanea, ma non per ricavarne puri pretesti teatrali come già era accaduto in passato, bensì per un vero proprio “connubio” che fosse fecondo anche per la musica. In Italia, i casi di poeti – musicisti alla Wagner furono rari (Boito fu il caso più eminente), ma quantomeno ai librettisti non si richiedeva più soltanto una miscela di scene e versi, non importa se di infima lega, purché funzionale, bensì un testo drammatico che avesse anche dignità letteraria.
A questo punto, riesce più facile comprendere il motivo dell’entusiasmo scatenato da Cavalleria Rusticana, non solo tra il pubblico, che restò conquistato dalla ricca vena melodica del compositore, applicata a un testo veloce, incalzante e di rara efficacia drammatica; ma anche di illustri critici e musicisti contemporanei stranieri, al punto che l’assolata Sicilia sembrò, per un momento, mettere in fuga le spettrali (ma quanto seducenti!) ombre del Walhalla. Fu un momento di grande entusiasmo e di speranze per il destino dell’opera italiana, e una delle accuse, in verità profondamente ingiuste, che si fanno a Mascagni è di non essere più stato all’altezza di quell’inizio miracoloso. Quel particolare tipo di “miracolo”, in effetti, non poteva più ripetersi, perché l’evoluzione del gusto, musicale e non, aveva subito un brusco colpo d’acceleratore rispetto al passato; ma questa è un’altra storia
L’opera invase i principali palcoscenici europei con un vero e proprio “effetto valanga”. “Le precipue caratteristiche di Pietro Mascagni si potrebbero ricercare nel fatto che, pur essendo inconfondibilmente italiano, egli è anche modernamente europeo (…) il suo talento si evidenzia maggiormente e si fa più chiaro nell’immediatezza con cui coglie di ogni singola scena la giusta atmosfera e nei particolari dell’espressione drammatica.” Sono parole di Eduard Hanslick, uno dei più illustri critici dell’epoca, che dedicò a Cavalleria una lunga analisi dopo la sua trionfale rappresentazione allo Staatsoper di Vienna nel marzo 1891, e che parlò tra l’altro di “maniera italiana, ma azione drammatica moderna”.
L’opera è una successione di “numeri” musicali, che rivelano nel giovane compositore una tecnica già scaltrita e raffinata. La sinfonia evoca con splendide “pennellate” il paesaggio siciliano; i cori una scena di festa che contrasta efficacemente con il dramma che sta per esplodere; arie e duetti, coincisi ed estremamente drammatici, dipingono una vera e propria gamma di passioni e sentimenti come nella migliore tradizione del teatro lirico italiano. E cavalleria Rusticana, ad onta della stupida insistenza di alcuni ancor più stupidi detrattori del compositore, resta uno dei più grandi capolavori del teatro musicale europeo, scritto da uno dei più grandi artisti italiani di fine ‘800/inizio ‘900.
Bibliografia:
Vincenzo TERENZIO/ Stefano TATULLO, Cavalleria rusticana, dalla novella al melodramma, Cerignola, 1997.
AAVV Mascagni Milano, Electa, 1984
Claudio CASINI “Il verismo musicale italiano” in Mascagni, cit. pp 9, 30.
Gherardo GHIRARDINI, Invito all'ascolto di Mascagni,Milano, Mursia, 1988.
AAVV Cavalleria rusticana/Pagliacci, ediz. Teatro del Maggio musicale fiorentino, Firenze, 2000.
Roberto IOVINO, Mascagni, l'avventuroso dell'opera,Milano, Camunia, 1987.
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