Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Avevo scritto in un capitolo passato degli scrittori capaci di disegnare con efficacia. Un dono corale di Muse esplicatosi in una sorta di doppia vocazione ove il talento principe, poetico o di raccontatore, trainava con sé in guisa di talento cadetto quello del figuratore. Accampavo pure, nella mia risalita ai Numi tutelari di questo esprimersi in forme d’arte del gran Wille dell’universo attraverso il genio individuale, i nomi di Francesco Petrarca e di Michelangelo Buonarroti. Il primo che si è scoperto essere l’abile disegnatore, coll’inchiostro forse reliquato dall’aver redatto i testi d’un codice, di un piccolo quadretto di lato che susciterebbe delizia al Papini nel poter rintracciare un altro inconfondibile segno di consapevole Rinascenza, ovvero d’imitazione del Padre, nel medievale poeta di Laura. Il secondo che ci sorprende, e distrugge nelle eventuali ambizioni di eguagliarlo, per la potenza del suo genio quando lo scopriamo stare tra i massimi poeti della nostra lingua. Nel genio fiorentino della Sistina il gran Wille schopenhaueriano è divenuto davvero un naturale Kȍnnen, un poter fare, al di là d’ogni ostacolo.
Ma disposti questi due Nomi di grandi a Numi tutelari del nostro modesto scorrere di pagine di volumi e sfogliare immagini dopo immagini di cataloghi ecco che ci si imbatte quasi per caso in una poesia che non lascia insensibili. È un animo tormentato che la scrive e però riconosciamo che in quest’animo oltre la superficie d’un mare increspato da onde turbinose o d’un paesaggio avvolto nella tempesta di venti e lampi, perveniamo a intervalli entro versi che ci ospitano come viatori dispersi fra le montagne in bufera in un rifugio quieto e sicuro o versi che come un ignoto delfino impietosito dalla nostra tragedia di naufraghi ci carichi a rimorchio per condurci in un porto riparato, entro il seno d’un ‘isola salvifica. Vi è di poi da aggiungere che questa poesia estremamente plastica per le immagini che suscita non è opera d’un letterato bensì d’un pittore e del massimo dell’era fascista: Mario Sironi. Essa ha un titolo assai esplicito: Compagna poesia, ed è stata scritta negli anni del secondo conflitto. Verrebbe da presumere che i desolati versi siano frutto più dell’approssimarsi della fine della guerra che non del suo retorico e troppo baldo inizio. È scritto nel poema dei Nibelunghi che troppo spesso le risa finiscono in pianto e in queste linee scarne e costellate di perfette trasfusioni in parola delle tavole del pittore sembra potersi scorgere l’allusione a tale trapasso di stato d’animo. La tragedia della guerra, sia essa al suo avvio, sia essa alla fine col suo mare d’immense rovine forse serve solo a far rammentare nel poeta gli anni giovanili ribelli e bollenti di vino e gioia futurista. Coronati ora dalla melodia morente che del mondo sorto dalla prima guerra mondiale cui Sironi aveva partecipato da volontario nel battaglione lombardo dei ciclisti ne accompagna la fine dolorosissima.
Ma per quanto pervasi di cupo ed agitato senso di tragedia questi versi agiscono, proprio per dolci tratti del ristoro celeste dove appunto si condensa l’essenza stessa di ogni poesia, come fredde immagini di quell’apertura all’ascesi della contemplazione che induce nella mente lo stato di “Verneinung des Willens”, la “Noluntas” di cui scrive Schopenhauer: l’istante di grazia nel quale cade lacerata come un vecchio lenzuolo l’angusta visione individuale e ci sentiamo parte consapevole e ammirante dello spettacolo di questo universo.
Compagna poesia
Perché vuoi morire?
Perché sei tanto stanco
di vagabondare dietro i tuoi sogni
Perché vuoi morire
cadere nel cielo
profondo
ombra
piena di tristezza
Perché vuoi morire
ora che il cielo
fiammeggia e costiere
immense
si accendono di luce siderale
…
Vieni con me laggiù –nei laghi
di cristallo
nei mari siderali
nelle isole prodigiose
laggiù felici
ombre tornate alla vita
dopo morte
una vita immortale
Mi siedi vicino
lo so –non ti allontani mai
sei la compagna ardente
baciami ancora o Dea
poesia baciami diletta
dilettissima –stringimi a te
al tuo seno che io possa
appoggiare il capo sulla tua spalla
soave –Cieli azzurri
azzurrissimi –Cieli
di smeraldi profondi oscuri
Palpitano le stelle
tu non ci sei più
sei sparita
sono tornato solo
solo sotto le stelle palpitanti
solo sotto l’immenso
sipario di pianto
solo nell’ombra immensa paurosa
Ora ti ho vista
ti inseguo furtivo
ora ti veggo nel cielo
Musa viola
tra i muschi e le betulle
e le rupi bianche
e solitarie
…
Ah il ricordo straziante
il vino, i sogni tenebrosi
la vita cara ribelle
con le unghie di belva
le melodie morenti
oltre le siepi
odorose, la
luna bianca nel cielo e
le mura bianche e
le piccole case
candori
oh tu mi hai parlato
ti ricordo
divina nella luce
ti chiamo
col vento nelle chiome
di luce e d’oro
correre correre
sui prati fioriti
correre al galoppo
cavalcata sfrenata
correre correre
gualdrappe rosse e dorate
e finimenti scintillanti
per la costiera luminosa
tagliati nel cielo d’opale
…
Strada percorsa da un viandante
sopra un ponte e un abisso
sotto le muraglie vaste
delle montagne
e il sole lancia tra muro e
muro un niagara di luce
polverizzata
luce che mi colpisci nel cuore
frecce d’oro avvelenate
frecce sibilanti
infisse e risuonanti
nella carne dolorosa del mio cuore
Poesia –ti ho vista- Ti ricordo
nella via silenziosa
Mi venisti incontro
con gli occhi ardenti
e io caddi in deliquio
in una tempesta di pianto
Passarono lagrime come sbattute
dalla tempesta
rigavano il cielo sibilando
ti cercai, con le mani tremanti
sipario immenso
lacerato
contro il nero definitivo
Postilla
Ho trascritto la poesia con qualche lacuna volontaria. Ma ho fatto questo perché mi pareva di poter appoggiarmi sul grazioso precedente che voglio raccontare. Mi rammentavo infatti di aver letto una memoria spiritosa di Giorgio Albertazzi rimastami impressa. È di quando il giovane, già sottotenente del 63esimo battaglione M “Tagliamento”, era un esordiente nel mondo del teatro e, invitato ad una serata di gala in un’augusta dimora fiorentina, aveva dato sfoggio delle sue indubbie qualità di dicitore. Recitando un poema Albertazzi racconta – ma chiedo al bravo lettore di eventualmente verificare qualche probabile slittamento perché ora scrivo anch’io a memoria-di aver infiammato un pubblico costellato da una non trascurabile aliquota di dame in ghingheri ed affascinanti. Il poema era però alquanto lungo e in qualche punto la bravura dell’allegro attore si prendeva l’arbitrio scherzoso di scorciare il poema a suo insindacabile piacimento. Era balenato un successo e dopo la recita, scendendo le scale, l’Albertazzi plausibilmente contornato di donne adoranti costeggiava sulle rampe un attempato e distinto signore che era stato presente alla serata. Questi era subito riconosciuto e si trattava proprio di Eugenio Montale. Albertazzi, forse lievemente a disagio si scusava con il poeta dei meriggi assorti e dello svaporar di essenze, dell’aver lui stesso svaporato un poco la poesia recitata ma Montale lo rincuorava di buon animo dicendo che in effetti a volte è necessario scorciare qualche poema troppo lungo. Mi sembra che in questa storia i due caratteri, quello dell’attore fiorentino scanzonato e quello del poeta di Monterosso si siano davvero ben profilati…
Inserito da Sandro Giovannini il 02/08/2015 10:02:27
centratissimo il commento ed ancor più godibile la postilla...un grazie di cuore per la bellezza del tutto. Sandro Giovannini
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