70 anni dalla morte

Pietro Mascagni il compositore dimenticato in nome del politicamente corretto

Livorno gli dedica appena una conferenza, il Maggio sorvola. L'autore della Cavalleria rusticana ebbe il torto di non essere antifascista e così decretò il proprio oblio in un Italia ingrata e stupida

di Domenico Del Nero

Pietro Mascagni il compositore dimenticato in nome del politicamente corretto

Pietro Mascagni

“E’ una consolazione poter dire che ho vissuto sempre da galantuomo” Così l’illustre maestro si espresse in una intervista nel 1942, quando la salute e le sue forze cominciavano ormai a declinare; e soprattutto iniziava anche quell’isolamento, dovuto non tanto e non solo al clima terribile della guerra, che si sarebbe trasformato di  lì a poco in ostracismo:  “Non si può … sono boicottato … che vecchiaia disperata è la mia!” disse con un oscuro presagio sempre in quella intervista.

Il due agosto 1945, in una Italia ancora straziata dalle piaghe del recente conflitto, Mascagni  si spegneva alle 7,15 del mattino nella sua stanza all’hotel Plaza di Roma, dove ormai soggiornava da  alcuni anni. I funerali si svolsero nel più totale anonimato: c’era la gente, il suo pubblico che lo aveva amato, ma la cultura ufficiale tace: non solo, ma il governo non ritiene neppure di dover inviare un suo rappresentante per onorare un artista che aveva tenuto alto nel mondo il nome dell’Italia.   Eppure, il comando francese che si trovava nello stesso hotel  aveva fatto ammainare la bandiera a mezz’asta, il governo inglese mandò un messaggio di condoglianze a quello italiano (che non si era nemmeno degnato di rilevare la scomparsa del maestro); a Mosca la radio mandò in onda brani di opere mascagnane. In tutto il mondo, senza discriminazioni politiche, si ricordò con rispetto e commozione un grande artista … in tutto il mondo tranne che in Italia, naturalmente.  Ma l’omaggio della “gente comune”  fu degno della sua fama e poté ampiamente supplire all’ignavia dell’Italietta “ufficiale”.

E oggi,  settanta anni dopo la sua morte? La “questione mascagnana” si è trascinata per decenni sui palcoscenici, da cui il maestro è stato sempre più assente  (o meglio allontanato),  con una critica che lo ha spesso impietosamente stroncato, inchiodandolo nel migliore dei  casi ad autore di un solo e unico capolavoro: quella Cavalleria Rusticana  che rimane senza dubbio la sua opera più celebre, ma non necessariamente la migliore e soprattutto la sola degna di prendere vita sulla scena.[1]

E’ molto significativo, al riguardo, quello che scriveva negli anni ottanta del secolo scorso un critico assolutamente insospettabile come Leonardo Pinzauti, riferendosi al  progetto   Mascagni che stava iniziando a decollare a Livorno  in quel periodo:

“ Ma restano i fatti, appunto, e fra questi il tentativo – in area politica livornese- di dimenticare definitivamente da che parte siano venuti gli ostracismi ideologici contro Mascagni dal 1945 ad oggi: perché la verità è che ci sono voluti 40 anni  prima di convincere certi ambienti a rinunciare a considerazioni soltanto sociopolitiche della realtà culturale, tralasciando d’altra parte i molti motivi che avrebbero potuto almeno spiegare perché la musica di Mascagni abbia attratto, e su piano internazionale, artisti illustri come Gustav Mahler ma anche tanta povera gente ignara delle classificazioni sociologiche e disponibile a farsi coinvolgere con i propri sentimenti primordiali.”

Considerazioni sociopolitiche della realtà culturale:  ovvero,  Mascagni doveva “pagare” la sua adesione al Fascismo. Poco importa poi che il maestro abbia scritto quasi tutte le sue opere prima dell’avvento al potere di Mussolini (unica eccezione il Nerone del 1935, che però di fascista malgrado il soggetto romano non ha assolutamente nulla, tanto che non fu affatto gradito agli intellettuali del regime); senza contare l’assurdità bella e buona di giudicare un artista esclusivamente per le sue idee politiche.  Naturalmente, di solito, non è questo che viene detto per giustificare le scarse  - per non dire quasi nulle – rappresentazioni di opere mascagnane sui palcoscenici nazionali.

Eppure il musicista livornese è stato, senza alcun dubbio, uno dei più grandi protagonisti della vita musicale di fine 800/primi 900; balzato improvvisamente alla ribalta nel 1890 con il trionfale esito romano di Cavalleria, entusiasmò persino l’ambiente musicale tedesco; fu molto apprezzato da un collega come Gustav Mahler, che ne diresse e portò al successo le prime opere e dal celebre critico Eduard Hanslick. Anzi, proprio quest’ultimo dedicò alla prima opera del musicista italiano una lunga e articolata analisi dopo una trionfale esecuzione allo Staatsoper  di Vienna, parlando tra l’altro di “Maniera italiana ma azione drammatica moderna” Anche se la cosa oggi può far sorridere, sembrò per un momento che Mascagni potesse rappresentare l’antiWagner: difronte alle superbe e monumentali cattedrali del grande genio tedesco, tanto amato quanto detestato, la nuova via indicata dal compositore toscano poteva apparire come meno complessa, ma ugualmente dotata di grande fascino, riproponendo la tradizione melodica italiana rinnovata ed aggiornata proprio grazie anche all’apertura a significative innovazioni wagneriane, quali il ruolo determinante dell’orchestra.

 Il problema starebbe nel “dopo”; esaurito questo eccezionale slancio iniziale, il compositore avrebbe perso la bussola, smarrendosi in una serie di avventure teatrali sconclusionate, mai azzeccate, tra libretti ancor più terrificanti di quelli del primo Verdi (che però, se non altro, erano spesso funzionali dal punto di vista dell’azione teatrale), vittima della propria faciloneria e persino di una scarsa cultura musicale . Si è detto di Mascagni che avrebbe messo in musica persino la lista del bucato.

In conclusione: dopo la zampata del leone, il ruggito del topo; e comunque non è mancato anche chi ha messo in dubbio il valore artistico di Cavalleria .  Nel migliore dei casi, il musicista toscano veniva inchiodato a quell’unico capolavoro, dovuto peraltro, sempre secondo i soliti censori, più alla bontà della fonte letteraria( il dramma di Verga) e del libretto che avrebbe praticamente partorito automaticamente la musica; parafrasando la celebre uscita di compar Alfio prima della sfida a duello, il vino di quel successo è diventato veleno nel petto del compositore, che forse aveva un presagio di quello che sarebbe accaduto, se alla vigilia di comporre l’Amico Fritz (1891) aveva dichiarato “Voglio essere giudicato per la musica e nient’altro che per la musica”.

Intendiamoci, non tutte le accuse mosse al maestro livornese sono prive di fondamento. Meno prudente e oculato nelle sue scelte dell’amico – rivale  Puccini, con cui sembrava trovarsi d’accordo pressoché solo nel lanciar strali al povero Leoncavallo ( Bestia il primo, leon; bestia il secondo, cavallo; bestia l’intero, Leoncavallo), nella sua carriera di compositore  che scorrerà fino al 1921 (salvo poi la parentesi di Nerone  del 1936) Mascagni compose 15 opere di valore decisamente diseguale; ma di lì a liquidarle in blocco come fallimenti ce ne corre. L’opera meritoria del festival di Livorno, insieme a qualche coraggiosa ripresa in altri teatri italiani,  oltre all’interesse che la discografia ha recentemente mostrato verso il teatro musicale italiano del primo novecento avrebbero dovuto dimostrare che il nome, pur eccelso, di Giacomo Puccini non è tuttavia il solo degno di rappresentare il dopo Verdi:  tra gli esiti del maestro livornese ci sono opere come il tardoromantico  Guglielmo Ratcliff  (1895), l’opera forse dove maggiore è l’influsso wagneriano, l’esotica Iris, primo esempio di opera “giapponese” di un musicista italiano, dove lo sperimentalismo mascagnano si fa più ardito e interessante soprattutto sul piano strumentale, arricchito da strumenti esotici di vario genere; le giocose Maschere (1901) , coraggioso tentativo di ricupero della tradizione buffa settecentesca e rossiniana, dove la  tipica vena melodica mascagnana si fonde con una  levitas  “neoclassica” in modo stupefacente;  per giungere poi, dopo l’interessantissimo esperimento medievaleggiante di Isabeau (1911)  a Parisina  (1913), dramma su testo espressamente scritto da D’Annunzio.  Sono lavori di grande interesse, fascino e bellezza, e per alcuni di essi si può  usare senza remore il termine capolavoro, anche a costo di avere qualche “musicologo” o qualche critico sulla coscienza.  Tutte creazioni che comunque meritano di essere riproposte e che, le poche volte che lo sono state, hanno per solito riscosso un vivo successo di pubblico accompagnato dal livore di buona parte della critica. Basti pensare alla splendida rappresentazione delle Maschere a Livorno in occasione del centenario dell’opera:  si tratta di  un’opera “aperta” nel vero stile della Commedia dell’Arte a cui si ispira, ma l’edizione livornese  volle  essere soprattutto un ritorno alle più autentiche intenzioni del musicista e del librettista Luigi Illica, un passato rivisto e innestato con gli occhi del loro tempo. Così, i costumi rigorosamente settecenteschi si integravano perfettamente nella dimensione “onirica” evocata dal regista Linsday  Kemp: una Venezia che resta sullo sfondo, plasmata nelle scenografie di Mark Baldwin sulla visione che ne hanno avuto alcuni grandi pittori del novecento. Arlecchino, Brighella e le altre maschere, grazie a cantanti che seppero essere anche bravi attori, rappresentavano così quei “tipi eterni” del teatro che compositore e librettista volevano evocare, con grazia e leggerezza, senza toni caricaturali o forzature; nella visione di Kemp, settecento e novecento si  erano veramente incontrati in una magia di suoni e colori. Per non parlare della direzione, leggiadra e spumeggiante, del maestro Bruno Aprea: uno spettacolo che ebbe un  grandissimo, meritato successo e che meriterebbe decisamente di essere riproposto.

Fa tristezza invece vedere come anche Livorno  non si sia scomodata più di tanto per l’anniversario di questo suo  figlio illustre: oggi ci sarà alla fortezza vecchia un  incontro concerto dal titolo  Pietro Mascagni, uomo e musicista - Incontro concerto per il 70° anniversario, a cui seguirà una rappresentazione di Cavalleria Rusticana, che è anche l’unico titolo in programma nella stagione 2015/16. Silenzio anche dal Maggio Musicale Fiorentino (che si è limitato a riproporre Cavalleria nella scorsa stagione) e c’è da supporre che i grandi teatri d’opera non si “scomoderanno” più di tanto.

Eppure Mascagni fu sempre molto legato alla sua città natale: “Bisogna che ve lo dica subito Livorno mi è piaciuta tanto, tanto, tanto. E’inutile confondersi: Livorno è una gran bella città. Che aria! Che freschezza! Che profumo!” .  Era il 1883, e il compositore appena ventenne così scriveva agli amici di Milano, dove studiava, allievo ribelle, scapestrato e scapigliato al Conservatorio, in occasione di un veloce passaggio nella sua città natale. E anche se il suo spirito irrequieto lo portò a cambiare residenza più volte e in varie località, non allentò mai il legame con le sue origini; in un certo senso, egli era il personaggio “nobile” che ancora mancava alla sua città, in cui essa venne quasi ad identificarsi, anche se, soprattutto dopo la sua scomparsa, non si trattò di un rapporto sempre pacifico e lineare.

“ A Livorno ne ha cambiate di case e quartieri – scrisse Sabatino Lopez – L’Amico Fritz fu compiuto in via Vittorio Emanuele, I Rantzau furono scritti in corso Amadeo, il Ratcliff, il Silvano e lo Zanetto in via Goldoni, Lodoletta e il Piccolo Marat nel villino di proprietà del Maestro nel viale tra Ardenza e Antignano…” Le memorie maggiori, però, sono forse quelle legate alla giovinezza, in cui la vocazione musicale del ragazzo sbocciò esuberante, in piena armonia con il suo carattere scanzonato e un po’ guascone. I Mascagni, originari sembra di un antico ceppo fiorentino, si erano stabiliti a Livorno nel 1850; il padre del musicista, Domenico, era proprietario di un forno vicino a piazza delle Erbe dove aveva un piccolo appartamento. Qui, tra il vociare chiassoso dei suoi concittadini, venne al mondo Pietro, il quale amava raccontare sul conto del padre questo aneddoto:

“Mio padre…era più testardo di me.” Sul futuro del figlio avrebbe avuto idee molto prosaiche: “ Mio padre faceva il pane, io faccio il pane, Pietro deve fare il pane” sarebbe stato il suo leitmotiv, ma pare non fosse vero. Nei progetti paterni, Pietro era destinato alle note giuridiche, e non a quelle musicali, con cui lo spirito concreto del “sor Domenico” non era affatto in sintonia. Provò così a contrastare la vocazione musicale de figlio, ma senza successo; nella sua città Pietro compì i primi studi musicali, perfezionati poi sotto la guida del concittadino Alfredo Soffredini, che per primo scoprì il talento del giovane. E i primi allori, per quanto locali, non furono meno clamorosi: nel 1879 all’istituto Cherubini eseguiva una Sinfonia in do minore, a cui seguirono altre composizioni , tra cui la cantata In Filanda (1881) destinata molto più tardi a trasformarsi nell’opera  Pinotta (1932). Ma Livorno, anche se non ebbe mai la soddisfazione di una prima delle opere maggiori, fu da subito una formidabile cassa di risonanza: già Cavalleria Rusticana(1890) rappresentata al teatro Goldoni subito dopo la prima romana e con gli stessi interpreti, vide la sera dello spettacolo radunarsi una folla tale che fu necessario l’intervento di uno squadrone di cavalleria … militare per evitare incidenti; e inoltre concittadini suoi furono i librettisti, il caro amico Giovanni Targioni – Tozzetti che lo assisterà anche in altre opere, e Guido Menasci.

Ma Pietro Mascagni non è certo personaggio solo “livornese”: è un grande toscano e un grande italiano. E a settanta anni di distanza sarebbe, per l’appunto, giusto e doveroso giudicarlo “solo per la musica”, senza paraocchi ideologici o considerazioni che non abbiano a che fare con la sua squisita natura d’artista. Ma anche questo anniversario, purtroppo, sembra essere una occasione mancata.  Alla bellezza di tante sue musiche si preferiscono il silenzio e l’indifferenza dell’ignavia e dell’ignoranza più nera. Questa è l’Italia di oggi, che pretende, tra l’altro, di essere infinitamente migliore di quella di ieri. Ma dove sono oggi i Mascagni, i Puccini,  i Marconi, i Pirandello che, sebbene “fascisti” possano renderla grande?



[1] Per  Cavalleria Rusticana vedi su Totalità.it il recente articolo di Leonardo POCCIANTI, Pietro Mascagni e il miracolo di Cavalleria, http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=7368&categoria=4&sezione=28&rubrica

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.