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harigasti teiwa

Breve appunto sui termini Deus, Gott, Θεος, Бог.

Deiw appare stabile, una volta venuto ad identificare la nozione di dio a partire dall’idea di cielo e dì, entro le varie particolarità nazionali indeuropee ove si afferma

di Piccolo da Chioggia

Breve appunto sui termini Deus, Gott, Θεος, Бог.

Angelo De Gubernatis

Sui termini che in quattro gruppi di lingue indeuropee sono venuti a definire l’idea generica di ente divino può esser d’ausilio, per una più ampia comprensione dell’immagine ch’essi termini vogliono manifestare, intravederne la derivazione dalla radice e, per quel che sia possibile, seguirne un barlume di sviluppo storico. Qui si considerano i seguenti quattro gruppi linguistici: due del tipo kentum, quali il latino ed il germanico, i restanti del tipo satem, ovvero l’ellenico e lo slavo. Detti gruppi in senso geografico si dispongono con una vaga approssimazione rispetto ad un punto centrale, che vogliamo situare sulle Alpi Retiche e di poco a mezzogiorno del lago di Costanza, non distanti dai quattro punti cardinali. A nord e nordovest si estende il gruppo germanico, ad ovest e sudovest quello latino, a sudest ed est l’ellenico, ad est e nordest lo slavo.

Per indicare l’ente divino il latino usa il termine deus, parola proveniente da un indeuropeo ricostruito deiw la quale riassume la nozione del cielo aperto ovvero luminoso e atta, come si vede ad esempio in sanscrito, a generare varie radici correlate quali di-, div-, dip-, dev-. Da deiw deriva il nome di Giove, in origine un arcaico Diovis pater contrattosi poi in Juppiter, cui corrisponde il vedico Dyaus pitar, il dio del cielo luminoso, e, nell’Ellade lo Zeus patèr. Quelli qui citati, Juppiter, Dyaus e Zeus, non sono sostantivi, essi sono i nomi propri dei numi.   

Da tale parola indeuropea deiw, si sono originati in area germanica e slava dei termini interessanti per quanto in seno ad entrambi i gruppi linguistici, la parola impostasi per denotare l’ente divino e gli aggettivi ad esso relativi provengano da radici e parole ricostruite indeuropee affatto diverse. In antico alto tedesco è il nome proprio d’un dio, Zio, altrove in qualche fonte anche Ziu, ad esser mutuato da deiw. Zio pare pervenire da un attestato Tiwaz. All’estremo nord germanico, in Scandinavia è il nome del dio del diritto, del monco Tŷr a dedursi da deiw, radice che, sempre in scandinavo genera pure un plurale, Tivar, gli dei. D’altra parte è proprio il primissimo documento conosciuto d’una lingua germanica, il famoso elmo di Negau, rinvenuto dagli scavi archeologici nel 1812 nella bassa Stiria, ad esibire nell’iscrizione

harigasti teiwa 

interpretabile sia pure con qualche cautela in un “al dio (ospite) dell’esercito”, con la parola teiwa, la prova o un argomento che direbbe che a suo tempo, presso alcun gruppo germanico, il termine che designava il dio mutuava dal deiw indeuropeo, e ancora non era prevalso il definitivo gott

Nell’ambito delle lingue slave secondo l’opinione del professor Angelo De Gubernatis, forse il primo titolare, o quantomeno uno dei primissimi, d’una cattedra di lingua sanscrita in Italia, dalla radice deiw discende in russo arcaico il termine divo il cui senso è meraviglia, ed il verbo divitj, meravigliare. Se la congettura del professore torinese risultasse esatta, per comprendere la ragione dello scivolare di deiw entro un vocabolo dal significato alquanto distante da un generico cielo luminoso, questo potrebbe esserne l’itinerario: alla vista dello spettacolo immenso del cielo aperto e chiaro e pervaso di luce si manifesta nel contemplante un senso d’insopprimibile meraviglia. Questa esperienza primeva si legava indissolubilmente ad una parola che pur definendo il cielo splendente, lentamente slittava a rammentare in chi la pronunziava non più la pura oggettività del contemplato ma l’attitudine provata nel contemplare. Un procedimento non troppo tortuoso e certo indicativo delle infinite vie che il genio d’una lingua apre alla propria volontà di esprimere.   

Deiw appare stabile, una volta venuto ad identificare la nozione di dio a partire dall’idea di cielo e dì, entro le varie particolarità nazionali indeuropee ove si afferma. Esso diviene dia in celtico, in latino dius come nome proprio e deus, in osco deivo, in lituano dievas, in vedico e sanscrito deva, in avestico daeva.  

In Ellade, Θεος, deriva da un indeuropeo dhewe- e dhū-m il cui senso primo è spirito. Dunque se l’antico Elleno venerò Zeus patér, Hera, Ares e Apollo e gli altri olimpici immortali, noi possiamo dire, certo con senno del poi, che l’essenza, l’aurea catena che tiene giunte queste divine individualità è, in segnatura linguistica, l’essere essi ϑεοι, ovvero spiriti. Ora per chiarirci quanto possibile ed al meglio la nozione sulla quale fiorisce il termine ϑεος, vediamo cosa discende nelle altre favelle indeuropee dalla radice dhewe- e dalla sua correlata dhū-m.  In latino  è fumus a derivare da dhū-m, in una assai concreta immagine di materia sublimata che divenuta aerea ascende. Ancor più ad occidente dei Latini, presso i Celti è il plurale dusios, ovvero fantasmi, a discender da dhewe-. E questo è un termine che delinea gli attori immateriali che appaiono in visioni o abitano luoghi remoti e misteriosi. Dalla medesima radice, nella variante dhu-m, nell’antico alto tedesco discende tumon, letteralmente un avvolgersi in spire, che richiama l’immagine prima d’un fumo o d’un vapore che salgono da un fuoco o da un liquido in ebollizione. Nel tedesco di oggi un vocabolo, Taumel, riconducibile all’antico tumon, esprime la nozione di capogiro dovuto all’ebbrezza. In lituano, dvasia, aderisce al senso originario espresso dalla radice e significa spirito, nello slavo antico duxū è soffio, evidentemente inteso come respiro, e poi la parola del russo di oggi, anima ma intesa nel senno di eroi divenuti immortali. Tali aspetti riportano dunque alla nozione d’un’entità che seppure aerea o immateriale resta tuttavia vitale ed animante. Da dhu-m discende infine il sanscrito dhūma.


Nel centro e nel settentrione d’Europa la parola impostasi per designare l’ente divino o tradurre dal latino deus è l’antico alto tedesco got, derivato da un indeuropeo ghau- , il cui senso è voce, e che voltosi in participio passato diviene ghuto, ovvero invocato. Da ghuto discende così in via diretta il Gott tedesco, letteralmente l’invocato o, a seconda delle sfumature del discorso, l’evocato. Ecco trascritta ad esempio la definizione di Gott data dall’autorevole vocabolario del Grimm: Gott, da ghu-to, das durch Zauberwort angerufene oder gerufene Wesen,    “Gott, l’ente richiamato (invocato) attraverso parola magica o semplicemente chiamato”. Un appellativo per il dio vedico Indra è Puru-huta, viel angerufen, ovvero “il molto invocato”. Il vocabolario del Grimm pone la radice ghau- quale radice che genera il verbo giessen, versare. Qui si potrebbe pensare non senza una certa e forse vaga estensione d’immagini alla voce come al suono che si riversi da una fonte. Presso le lingue celtiche si hanno dalla radice in questione un guth ed un gallese gutu. Nel nordico guths è dio antico. Il got antico alto tedesco è, fanno notare i grammatici, un neutro, quindi se non erro con le mie modeste reminiscenze di letture, l’articolo a precederlo è un dasz o daz: daz got. In tedesco moderno Gott è di genere maschile: der Gott. Invero si nota lo strano senso del nordico guths, dio antico: che sia forse un’allusione a un dio primordiale, forse celeste come Dyaus, e dipoi impallidito all’affermarsi della triade Odhinn, Thorr e Freyr, la triade esemplare delle funzioni di regalità, guerra e prosperità e salute, o più semplicemente esso è l’avviso dato dell’avvenuta cristianizzazione? All’istante non so dire con sufficiente sicurezza.  La radice ghau- si prosegue in ogni caso pure all’oriente nordico baltico e, oltre: in lituano zaveti significa un chiaro sottoporre a magia, chiaro perché può così illuminare ulteriormente il senso forse più recondito da dare all’invocato ovvero al got, in quanto risposta ad un’invocazione che manifesta una forza magica nel rituale di effettuarla. Declinando l’aspetto magico ma non esaurendosi del tutto, ghau- origina uno slavo antico zovo donde discende il moderno russo zavatj, chiamare. In sanscrito da ghau- proviene havate.

Dio si rende nelle lingue slave con la parola Бог, trascritta in Bog e che si pronuncia in russo come un “boch” dove il ch finale è simile al ch tedesco di bach o buch ma mi pare, avendolo udito da viva voce, lievemente più duro e stretto, assolutamente non allungato o, addirittura, strascicato. Una parola breve e severa dunque. La cui origine proviene dalla radice bhag- il cui senso è riposto nell’assegnare, fare le parti. Bhag- si muta in un antico slavo bogŭ ma arriva persino a fiancheggiare il nome del sovrano dell’Olimpo ellenico, Zeus, che in lingua frigia assume il curioso appellativo di Bagaios, Ζευς Βαγαιος. Da bhag- in sanscrito discende il verbo bhajati, taglia, e bhaga che oltre a designare la parte che viene dal sacrificio diviene il nome proprio d’un dio: Bhaga, il nume che fa ed assegna le parti ed è un importante dio ausiliario del dio sovrano giurista, Mithra. Per comprendere in ogni senso tanto la formula usata per Mithra, quanto la funzione dello stesso dio, il lettore dovrebbe rileggere lo scritto su “Numi rigvedici e architettura tripartita” qui apparso qualche tempo addietro. 

Tentiamo ora di trarre da questi dati linguistici delle considerazioni più generali. È del gruppo latino una stabilità plurimillenaria nel designare l’ente divino usando della radice deiw- nella quale pare come predominare, l’idea d’una contemplazione spassionata e nuda dell’immensità luminosa che si traspone poi per congeniale similitudine in un principio, quello divino. Dal nome proprio del sovrano mago, Juppiter  e poi dell’altro sovrano divino, il giurista, Dius Fidius, il vocabolo deus si conserva inalterato e diviene infine il nome del dio unico cristiano. Nelle lingue germaniche, il pallido termine teiwa inciso sull’elmo di Negau doveva cedere al got, all’invocato, nella cui nozione originaria si può rinvenire, svanito l’afflato magico dell’arcaico rituale dell’invocazione, un carattere agente, ovvero soggettivo, in virtù del fatto che si definisce un ente, il dio appunto, non sulla sua esplicita qualità d’esser luminoso come avviene pel deus latino, ma pel suo venire richiamato dall’ombra entro la quale si cela. La nozione del dio, daz got, germanica non concede molto di descrittivo, essa appare intrinsecamente ragionata, vorrei dire che essa diviene, al cadere d’ogni residuo magico, filosofica e però quasi intrisa di nostalgia. A tal proposito non posso non rammentare i versi del Nietzsche ancora scolaro nel poema dem unbekannten Gotte, al dio ignoto.

Ma una traccia dell’abbagliante esplicito deiw- , dyeu-  e poi teiwa attraversa i tempi per giungere fino al tedesco moderno. Abbiamo visto lo Zio e Ziu antico altotedeschi, e si ha la notizia, che traggo da un’opera di Leopold von Schrȍder, eminente storico delle religioni e professore di sanscrito a Vienna, d’una nazione germanica, gli Svevi Ziowari la cui città capitale fu Ziesburg ovvero la città del “regnator omnium deus” sulle fondamenta della quale sorge l’odierna Augsburg. Pare appunto doversi a questi Svevi pure il vocabolo ziestac, il  giorno del dio, da cui proviene la parola tedesca Dienstag, che significa martedì. Per una strana ma suggestiva coincidenza, nell’incompiuto romanzo settecentesco Heinrich von Ofterdingen di Novalis, all’oscurità della Selva Turingia fa da contrappunto nei paesaggi evocati dal racconto la luminosa città di Augsburg.

Presso gli Elleni, rimasta la nozione del cielo aperto e per estensione dell’elemento la cui sostanza è pura luce nel nome proprio del folgorante Zeus, la qualità dell’essere un’individualità divina veniva circoscritta, dunque precisata da un sostantivo, ϑεος, che porta in dote il senso d’una aerità immateriale ed animante. Un senso che mi appare quasi meditato nella sua applicazione e meno connesso all’evidenza di deus, e altrettanto più distaccato che non daz got da richiamo magico e nostalgia. Una caratteristica ulteriore di ϑεος, nonché della radice dhewe-, è la percettibile affinità di suono, particolarmente in capo alla parola con la dentale ed il dittongo di vocali, con deus e quindi con deiw- e dyeu-, affinità che converge da radici differenti al medesimo significato. Come non pensare ad una lontanissima primordiale nozione originaria di spirito o anima ma quali enti che in principio sono coscienti e quindi, in virtù di ciò, luminosi?

All’Oriente che discende dal settentrione prossimo all’area baltica fino alle sterminate distese della Russia meridionale e di poi giunge all’Illiria ed ai Balcani, il sostantivo Бог è quello che si impone presso gli Slavi tutti. Vi è chi afferma che tale Bog arrivi nel suo senso compiuto di dio attraverso il contatto iranico e ciò può certo comprendersi vista l’antichità di quella cultura così prossima a quella vedica. Resta però giustificato indagare in ogni caso se il termine non si sia evoluto immediatamente entro l’ambito slavo, ovvero senza nulla dover a contatti esterni, dalla radice bhag- nel senso finale di ente divino a partire dalla nozione di assegnazione delle parti sacrificali. Ma come che sia è da riscontrare anche a questa latitudine una certa stabilità plurimillenaria della radice nel suo generare parole che vanno a designare un ente divino: dal nome proprio d’un ausiliare del dio Mithra, Bhaga, al dio unico, Бог, Bog, mutuato dall’ortodossia bizantina quando per volontà del principe Vladimiro anche i Rus’ accettarono di divenire cristiani. Quanto al carattere dato al termine Бог dalla sua radice sono esaurienti le precise parole usate dal von Schröder e tratte da una rara conoscenza del sanscrito, quale traspare ad esempio nella sua magnifica traduzione del poema della Bhagavad Gita: è Bog, der reichlich spendende, reichlich antheilgebende, der guetige geber, ovvero è Bog colui che dona in gran copia, che dà ricche parti, lui, il benevolo donatore. Altrove, sempre l’indologo viennese, assegna al sostantivo Bog, in virtù della radice, l’aggettivo mild, mite, indulgente, misericordioso.  

    

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