Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Certo Lilloni non ha dipinto e non dipinge solamente alberi ma questa tematica è senz’altro la sua preferita, e, ci sembra, quella che più d’ogni altra può aprire il discorso a considerazioni sui valori emblematici più che estetici. Per meglio inquadrare la particolare poetica di Lilloni, è utile soffermarsi sull’intero mondo di questo pittore lombardo sia di nascita –è nato a Milano nel 1898- sia di formazione. Negli anni giovanili frequentò infatti l’Accademia di Brera studiando da prima sotto la guida di Bignami e Rapetti, poi, dopo l’interruzione dovuta alla guerra 1915-18, che lo vede giovanissimo al fronte, riprende gli studi accademici sotto Tallone e Alciati, insigne ritrattista, di cui riporterà soprattutto echi nei ritratti e nelle figure. L’influsso accademico è avvertibile soprattutto agli inizia della sua pittura; successivamente Lilloni si indirizza verso l’esperienza novecentista sempre ricercando in essa una rigorosa composizione delle masse, dei volumi, fedele alla propria formazione accademica. Negli anni che vanno dal ‘27 al ’30 le sue opere sono per lo più piccoli paesaggi, lembi della campagna lombarda, o dintorni di Milano e risentono ancora di un’atmosfera legata all’ottocento con qualche allusione impressionista specialmente nella stesura del colore. È intorno agli anni trenta il suo dedicarsi a quella forma di espressione pittorica, basata sulla valorizzazione delle tonalità chiare del colore che va sotto il nome di chiarismo, e alla quale si dedicarono, oltre a Lilloni, altri pittori operanti a Milano e che furono da Guido Piovene definiti “Chiaristi”. Fra coloro che seguirono questo “modo pittorico” magari soltanto per un periodo della loro attività, il nome più di spicco anche per la continuità del suo discorso è quello di Lilloni.
L’esperienza chiarista fu determinante per l’artista che in questo “modo” pittorico individuò più che in ogni altro una maniera di sentire, un’ottica con cui osservare il mondo seguendo nuovi schemi assiologici, nuove scale di valori diversi da quelli di un realismo corposo, pur tuttavia senza tralignare mai dalla linea della realtà ma movimentandola in senso fiabesco e trasfigurandola sulla base di una fantasia estremamente delicata e gentile. Nel chiarismo Lilloni ritrovava quel discorso poetico che si riallacciava alla luce delicata e trasognata del ‘300 lombardo per arrivare sino alle luminescenze del Piccio e alle atmosfere fiabesco-visionarie del Ranzoni di cui ricordiamo l’ottimo “visione di Dante”, dove a Dante appare Beatrice, quadro sfumato e pieno di atmosfera. Le prime avvisaglie di questa che doveva poi divenire la scelta pittorico-esistenziale del maestro, cominciano già a delinearsi nel ’29 con l’opera “Monterosso” e le luminescenze del paesaggio traslucido delle “Cinque Terre” si prestavano più che mai ad essere descritte in questa chiave per confermarsi definitivamente in un dipinto del ’30, “Entella”. Dal ’34 in poi la sua produzione è totalmente svolta nell’ambito della poetica chiarista che le esperienze esistenziali, soprattutto di viaggi in paesi lontani non faranno che arricchire e confermare. Significativo per un maggiore affinamento della trasparenza del colore fu il viaggio in Svezia: il paesaggio svedese con i colori smorzati e rarefatti così diversi dalla violenza cromatica mediterranea era quanto mai congeniale agli umori ed alla sensibilità di Lilloni. Le opere dipinte in Svezia furono oggetto di una mostra personale particolarmente importante tenuta nel ’49 presso la galleria dell’Annunziata.
Altra esperienza interessante fu quella parigina. Di Parigi Lilloni fissò gli aspetti più suggestivi e caratteristici in una serie di opere che unitamente a quelle del periodo svedese sono considerate le più pregevoli della sua produzione e godono di una particolare valutazione sul mercato: la loro quotazione è infatti superiore del 20% circa a quella solita delle opere del Maestro.
Dopo questi grandi viaggi, la geografia del Lilloni comincia a raccogliersi in più brevi spazi: nascono così le vedute di Medola, Torcello, Burano, Bardonecchia e altri piccoli centri dove la vita è ancora a misura d’uomo e dove la vena di Lilloni ritrova un’atmosfera fiabesca in cui può indugiare senza traumi e senza scosse. Elemento comune a tutti questi dipinti è il colore trasparente, giocato in una gamma chiara colma di traslucide luminescenze e la semplificazione del paesaggio nelle sue strutture attraverso una sintesi formale rigorosa. Il colore di Lilloni è pulito, estremamente cantato su pochi toni vibranti di luce, di luminosità. A volte sembra che egli sia riuscito a imprigionare nelle punte del suo pennello una luce che invade l’intero spazio quasi a cancellarne le strutture grafiche della composizione: tutto si sfa in questa luminosità palpitante e viva, estremamente duttile, ma senza però che i limiti, i confini fra una cosa e l’altra si sfaldino nell’indeterminato. Il mistero e il fascino della sua pittura è proprio in questo equilibrio fra colore e forma, in questa interazione dell’elemento formale e dell’elemento cromatico senza però che l’uno defraudi l’altro. Intanto nei suoi paesaggi sta delineandosi grado a grado, con lentezza ma non per questo meno tenacemente, quella che dovrà diventare la sua tematica preferita: gli alberi e i boschi.
Dapprima affacciatisi sullo sfondo di alcuni ritratti, poi sempre più reclamanti spazio nelle vedute e nei paesaggi, quasi imponendosi sulla traccia di un emblematico discorso, questi alberi si fanno sempre più invadenti ed escono dal ruolo accessorio, divenendo comprimari e poi protagonisti assoluti del mondo dell’artista. Il graduale imporsi di questa tematica non va disgiunto da una sempre più evidente adesione del Maestro al chiarismo: meglio si potrebbe dire che il rapporto fra realtà e simbolo doveva quasi giocarsi di pari passo sia nella scelta della tematica sia nel raffinarsi dei valori cromatici. Per Lilloni il chiarismo si configura così come una scelta volta più sul piano emozionale che su quello tecnico, è una maniera di sentire, “di ricevere” il mondo, quasi una Weltanschauung non apertamente assunta ma agita ugualmente in modo sensibile ed efficace a livello di trasognamento, di trasfigurazione della realtà. parlando del chiarismo di Lilloni è doveroso però un raffronto –che è al tempo stesso ricordo- con la pittura di Del Bon, l’altro insigne chiarista che ebbe con Lilloni a partire dagli anni trenta un lungo sodalizio concluso nel ’52 per la morte dello stesso Del Bon. Il chiarismo di Lilloni si differenzia però da quello dell’amico: Lilloni conserva sia pure nel rarefarsi dei colori trasparenze evanescenti, una dimensione più reale dove levità e luminosità pur aprendo consapevoli spiragli al fiabesco e al magico mantengono tuttavia uno stretto rapporto con la realtà. Con Lilloni occorre saper reperire il magico in un contesto reale e con il termine “fiabesco” non si intendono atmosfere falsate o irreali ma rappresentazioni di una realtà letta nei suoi aspetti misteriosi che sono presenti in tutto ciò che ci circonda. Le piante, gli alberi, i fiori sono in stretto collegamento con gli aspetti esoterico-magici della natura.
Qualsiasi pianta, qualsiasi albero, i relativi profumi hanno un aspetto magico, delle virtù essenziali strettamente connesse secondo l’astrologia esoterica, con i pianeti che governano questa o quell’ora del giorno e della notte, questo o quel periodo dell’anno. Antichi segreti sapienziali che Lilloni sembra voler indagare e riscoprire con le punte del suo pennello. E la sua attenzione dopo un vago scivolare su nature morte, fiori e via di seguito, si sofferma sugli alberi: chiari evanescenti sfatti in chiome dove il verde talvolta si impreziosisce di sfumature dorate –le impalpabili trasparenze dei giochi di sole- questi alberi lilloniani, è il caso di dirlo, assumono un peso ed un significato sempre più marcato nel discorso del pittore. le chiome aeree sui tronchi nodosi, o i rami protesi al cielo come braccia levate creano immagini estremamente riposanti sul piano estetico e dall’altro canto, per un sottile giuoco di forze, suggeriscono aperture e significati meno evidenti e più essenziali: il linguaggio diviene sempre più emblematico e calcando questi tappeti di foglie –è questa la sensazione “tattile”, come direbbe Berenson, che si prova dinnanzi a questi boschi e a questi viottoli che s’incidono aprendosi e chiudendosi nell’ambito di un breve spazio ellittico – ci si incammina anche verso una dimensione sognata ma non per questo meno essenziale e vera. Gli alberi di Lilloni sapientemente schematizzati nelle loro linee essenziali non però appiattiti ma mantenuti nella loro qualità individua di pini, di acacie, di olmi etc. si ricollegano ad una antica simbolica strettamente connessa con l’humus tradizionale. Non ci sembra esatto infatti leggere la pittura di Lilloni in chiave ecologica: sarebbe fraintendere, snaturare completamente la profondità del suo discorso, non certo astruso, all’apparenza semplice eppure polimorfo: i suoi quadri possono essere visti in chiave estetico evasiva –bel paesaggio, soggetto piacevole, colore gradevole e riposante per l’occhio- ed anche in chiave, come adesso impone una nuova moda critica, ecologica, come un’affettuosa ed a un tempo puntigliosa rappresentazione di una natura che spesso l’uomo dimentica e trascura o peggio coarta e avvilisce: fermarsi però a queste dimensioni è snaturare e impoverire in una parola fraintendere il profondo significato di tale discorso. Gli alberi rivestono una serie di significati: stabilità e mobilità, attaccamento alla terra “nutrix” ma allo stesso tempo slancio verso l’alto e non si può pensare a questo punto analogicamente allo “Yggdrasill”, l’albero cosmico.
Come poi l’albero sia presente in una infinità di tradizioni è innegabile: dal biblico racconto del Paradiso Terrestre con l’albero del frutto proibito, al mito del Re del bosco di Nemi, anch’esso vivente su un albero, al mito dell’albero delle mele d’oro nell’orto delle Esperidi. Il materiale archetipico e tradizionale cui ci riportano questi alberi lilloniani è immenso, un terreno che accenna e suggerisce senza mai chiarirsi nettamente. E non a caso spesso anche gli alberi di Lilloni assumono una caratterizzazione quasi umana, sembrano antropomorfizzarsi; lo hanno rilevato sebbene quasi “en passant” alcuni critici: Carlo Giacomazzi ad esempio scrive: nel “paesaggio a Lusignano (del 1944) i due grandi alberi focalizzati sul primo e secondo piano paion figure umane.” L’albero infatti forse meglio di qualsiasi altro simbolo esprime il rapporto fra terra e cielo proprio per quel suo essere radicato nella terra e proiettato verso l’alto: un dualismo in spiccata analogia con l’uomo a sua volta creatura duplice, materiale e spirituale. Naturalmente sono analogie e come tutte le analogie non vanno interpretate alla lettera ma piuttosto intuite sull’onda di un certo “esprit de finesse”. Comunque il fiabesco di Lilloni si rivela visto da questa angolazione non certo gratuito ma profondamente connesso con un substrato archetipico e simbolico che inevitabilmente, sia pure trasfigurato e spesso inavvertibile, rimane alla base della vita stessa e di ogni produzione artistica che non si limiti a rappresentare solo superficialmente la realtà.
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