Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Torre del Gardello, Verona
Dopo un breve andirivieni Arena e portoni con l’orologio, abbacinato dallo spettacolo della Bra - il termine forse arriva dal longobardo che in tedesco diviene Breite ovvero spazio aperto - decido che proprio mi devo avviare verso l’altra stazione, quella di periferia sulla via che conduce verso la provincia orientale. Arrivo alla strettoia che costituisce l’imbocco della Via Nuova ma non mi inoltro per questa arteria, la via delle boutiques chic intermesse in una composizione abbastanza pompieristica da gelaterie o friggitorie di patate o, ancora, da rivenduglioli di gelati fermentati a yoghurt. Effetto evidente della buaggine di certa élite che non sa decidere che tono dare alla villa scaligera e, in attesa che qualche idea assennata piova dal cielo, alterna ai cori areniani la musica strumentale dei registratori di cassa…
Mi inoltro per una viuzza che dovrebbe condurmi ai Portoni Romani, non lontani dal ponte che transitava a quella che in tempo asburgico e fino agli anni venti del novecento era la Campagnola. Arrivo ad un bello slargo illuminato dal marmo bianco dei due archi romani investiti dalla luce dei lampioni. Avanti a me che guardo a settentrione una via in leggera salita si inoltra nel ponte della Vittoria, decorato da statue in bronzo. Ai lati dello slargo in ordine sparso, dei caffè con qualche pretesa di eleganza stornata dal gusto degli arredi interni ed esterni. Una friggitoria di patate olandesi giusto a fronte d’un caffè svolge l’ufficio che di altri tempi svolgevano in Verona i venditori di castagnaccio qui chiamato, con un curioso gergo, la bole.
Il decadimento è subito comprovato: il buon castagnaccio nel veronese era impastato dalla farina delle castagne tonde e grosse provenienti dai monti Lessini, e aveva una fragranza delicata che a pochi passi dileguava per sparire come il profumo di piccole rose. Il tanfo della patata olandese fritta qui impregna l’aria fino alle pietre millenarie del portone romano.
Passo sotto i portoni per dirigermi a piazza Erbe e dipoi a Santa Anastasia. Sulla destra, appena oltre l’augusto doppio arco una lampada votiva illumina la tela che porta una bella immagine sacra, un’annunciazione incorniciata e i cui colori si sono iscuriti al passar del tempo. Sul muro proprio sotto di essa si allineano i tavolini d’un altro caffè tuttofare che serve piatti di affettati, insalate varie e mesce caffè, liquori, bibite. Qui, se ne fosse il caso, il motto potrebbe essere: chi più ne ha più ne metta.
Non guardo troppo e passo. Ai lati del corso solo boutiques, a metà corso costeggio il muro laterale in mattoni d’una bella chiesetta senza facciata. Vi si entra da una piccola porta decorata da alcune figure in marmo sull’architrave. L’impressione è quella di una bella architettura pure entro dimensioni da pieve di campagna. Dopo poco arrivo in piazza Erbe.
La colonna con il leone marciano rammenta al viatore la passata potestà veneziana. Da sotto la colonna mi perdo ad ammirare la piazza tante volte dipinta da Angelo Dall’Oca Bianca e tanto bella da esser stata persino ritratta in quadri aeropittorici di alcuni futurista locali. La prospettiva del mio sguardo è opposta a quella del maestro veronese. Dall’Oca Bianca aveva come punto di fuga la colonna leonina ed il palazzo, sotto il quale io sono, ornato dalle sei statue in bilico sul cornicione. Il mio punto di fuga è volto verso il meridione dove la piazza si restringe nella via che conduce alla chiesa di San Fermo. Il pittore veronese ritraeva la dolce architettura della torre del Gardello, sul lato del bel palazzo dalle cinque statue; io ammiro la snella torre dei Lamberti che come un Gargantua medievale imbottito di pastissade de caval, il piatto di antica tradizione, è svettato, crescendo, ai cento metri di statura.
Al centro della piazza una bella fontana cattura la mia attenzione: vi è una fanciulla irrigidita nella pietra e veglia sul piatto superiore della fonte. Dicono sia una statua romana cui venne dato poi, in tempi cristiani, il nome di madonna Verona. Da questo punto volto lo sguardo tutt’intorno. Alla luce dei lampioni vedo una cornice di palazzi medievali affrescati a motivi lineari con balconi e loggette, le due torri che ho nominato e un torracchione senza finestre e forse senza nome. La prospettiva non è vasta ma è forzata al punto di fuga verso l’alto indicato di modo prepotente dal Gargantua lambertesco, e con maggior grazia dalle statue sul cornicione del palazzo sotto il quale mi trovavo.
Il cielo ha ora il colore blu scuro della sera inoltrata. Un battito d’ali che dal basso appaiono riverberate d’argento cupo rivela un paio di piccioni attardati di ritorno ai loro rifugi notturni sui tetti.
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