Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Berto Barbarani
Un’occhiata all’orologio sulla Torre dei Lamberti segna il termine della mia sosta. Non mi perdo oltre nella contemplazione e prendo il cammino verso la chiesa di Sant’Anastasia. Il corso che conduce a questa maestosa basilica è la prosecuzione in linea retta del corso da cui provenivo, quello degli archi romani. Passata la Piazza delle Erbe la strada si restringe però leggermente e nella sera è più in ombra. I lampioni sono fiochi. Finalmente le boutiques, le gioiellerie, le bigiotterie che rendono pietosamente uniforme il corso degli archi romani cedono nel corso di Sant’Anastasia. Dalle case si affacciano anche semplici mercerie, degli alimentari e, verso la basilica, degli antiquari che esibiscono vetrine ben arredate. Quadri ottocenteschi dei maestri di Chioggia, mobili stile Impero, antiche pendole a muro sono esposte e danno grato vedere. Entro una vetrina mi diletto ad ammirare delle statuette in porcellana dipinta che ritraggono soldatini dell’armata napoleonica. Campeggia da una parte addirittura la statuetta equestre d’un Empereur a capo chino, montato sul suo cavallo che procede al passo, scortato da un granatiere, un Grognard della Guardia. Mario Praz avrebbe sicuramente acquistato i due pezzi per “La casa della vita”…
Leggo il cartiglio apposto in calligrafia a mano: “Napoleone triste dopo la battaglia di Smolensk”, e una data che non rammento. Ammicca sotto la didascalia italiana quella russa, ben visibile e messa per adescare fra i numerosi turisti della Moscovia o di Pietroburgo quelli che sono in vena di acquisti costosi.
A pochi metri dalla vetrina soldatesca il corso, ora ristrettosi ad una viuzza in ogni caso graziosa ed elegante come un salottino si apre nella piazza della basilica. D’un lato, quello destro, il più titolato albergo di Verona lascia intravedere dietro le vetrate il salone imbandito impeccabilmente per la colazione dell’indomani mattina. Buon gusto e semplicità misurata. Necessari in una piazza dominata dalla facciata incompiuta del grande edificio sacro. Sul lato sinistro vi è una chiesetta ausiliaria e fra questa e la basilica sta un’arca posta in alto su di un muro riparata sotto un’edicola medievale sorretta da quattro colonne. Entrambe, basilica e chiesetta, sono in stile romanico e costruite in mattoni a vista. La facciata della minore è aggraziata da tre pinnacoli, quella della maggiore ha gli estremi che si elevano oltre lo spiovente in due massicce colonne a base squadrata.
So di essere nei pressi della casa natale di Berto Barbarani, posta dirimpetto al Ponte Nuovo e mi ci avvio, ma facendo una sorta di marcia del gambero ovvero tornando per dove ero venuto. Inoltrarmi per la via oscura sul lato dell’albergo, più comoda per arrivare al ponte, mi farebbe perdere l’ultima occhiata alle statuette napoleoniche, in coreografia con altre consimili che ritraggono damine veneziane, un cocchio settecentesco con cavalli e passeggeri, cagnolini, gatti e l’immancabile aquila grifagna che spiega le ali. Ripasso dinanzi la vetrina con il suo piccolo mondo colorato e volto subito dopo per la via delle Arche Scaligere.
Arrivo in pochi passi alle auguste estreme dimore dei Della Scala. Rammento lo Sparenberg, il volume da me mai letto che narra con meticolosità di studioso la storia di questa stirpe di lanaioli assurta a facitrice di storia nel turbolento medioevo italiano. Mi contento di deviare di soli quattro o cinque passi sul mio cammino per rendere omaggio a Cangrande che riposa nell’arca più semplice e più oscura posta in una nicchia sopra l’ingresso della chiesetta. Un’altra piccola pieve che potrebbe stare in campagna ma è finita affogata dalle case d’intorno.
Cangrande e Berto, del primo l’estremo giaciglio e del secondo, a pochi passi di distanza, la casa dove nacque
alla vita mortale alla poesia immortale
come scritto nella lapide appena leggibile posta sul muro di angolo alla facciata che dà sul fiume.
Ecco il ponte. Ed ecco il fiume, maestoso. Sono giusto sul confine di due imperi scomparsi. Sulla riva destra sta la Verona dei palazzi signorili e della leggenda, su quella sinistra sta la Veronetta delle arti e dei mestieri. Per qualche anno dopo l’incoronazione del Bonaparte, la città scaligera si trovò divisa fra Impero Napoleonico e Impero d’Austria dall’Adige: a destra Verona era francese, a sinistra, era più modestamente un’ancella dell’Asburgo la graziosa Veronetta adagiata ai piedi della collina.
Osservo la corrente vigorosa delle acque scure e rammento il solo verso completo che ricordo di Berto Barbarani
Vorìa cantar Verona a una serta ora de note
I flutti scorrono gorgogliando sotto il ponte e rinnovano perennemente la
ciàcola verde
l’appellativo pieno di affetto per il suo fiume, d’un poeta che a pochissimi passi da queste acque vide la luce.
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