Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
La disputa a Palazzo Madama per il “nuovo Senato”, che evito di chiamare una discussione, vista l’incombente minaccia soffocatrice ed antidemocratica della “fiducia”, ha ridestato l’interesse su un tema, sul quale il centro berlusconiano e leghista è stato, al solito, se non latitante, certamente inconsistente. Questo atteggiamento non è certo smentito dalla presentazione di centinaia di migliaia di emendamenti da parte di Calderoli, pronto a ritirarli in caso di concessione di “un piatto di lenticchie”, rappresentato dal positivo epilogo di una vicenda locale.
Due autorevoli editorialisti del “Corriere della Sera”, Paolo Mieli e Michele Ainis, sono intervenuti con due note di differente tenore. Il primo si è lanciato in una immeritata ed ingiustificata demonizzazione del bicameralismo paritario, palestra di democrazia se l’Italia non ricordasse di essere spesso la terra del “dottor Azzegarbugli, citando Stefano Rodotà, avversario della trasformazione in una sorta (di brutta copia) del Bundesrat, ora non redento, come intende Mieli, ma fautore di “altre modifiche”. Ricorda che la seconda Camera non esiste in quindici dei 28 Paesi dell’Unione Europea mentre in 8 dei rimanenti 13 non è eletto direttamente dai cittadini. Mieli sorvola poi sul fatto che da anni in Gran Bretagna è in corso un dibattito, quello sì veramente corretto e composto, sulla Camera dei Lord, di fronte alla quale non esistono che due ipotesi di soluzione, la soppressione o l’elezione, diretta. Non si preoccupa, come hanno fatto tantissimi altri, dell’inefficienza cronica delle nostre Regioni e della corruzione devastante imperante in esse.
Mieli, in questo caso unito alla totalità dei giornalisti e degli analisti, dimentica l’esempio degli Stati Uniti, in cui nessuno si sogna di mettere in discussione (o alla berlina) il bicameralismo del Congresso.
Dal canto suo Ainis si cura di notare che “i senatori avranno ben poche funzioni da rivendicare. Erano già misere nel testo concepito dal governo; al giro di boa la Camera le ha [checché asserisca la Boschi] ulteriormente sforbiciate”.
L’editorialista conclude, auspicando che “è ancora più importante restituirgli [al Senato] una missione, un’anima. Senza più il voto di fiducia sui governi, ma confermando la fiducia su questa antica istituzione”.
E proprio sul valore vetusto e non già sul peso anacronistico, rileggiamo due valutazioni sulla Camera alta, espresse da due statisti dell’Italia liberale.
Nel giugno 1887 Francesco Crispi, ministro dell’Interno nell’ultimo gabinetto, presieduto da Depretis, segnala che “la legge fondamentale [lo Statuto] vuole essere trattata con ben altri riguardi; le modificazioni alla medesima devono essere fatte a misura che la pubblica opinione ciò imponga; e, per quanto concerne i due corpi del Parlamento, bisogna che ciascuno di essi indichi il modo e le condizioni con cui debba riformarsi”.
Con una sinteticità disarmante quanto felice Sidney Sonnino, in uno dei passaggi salienti del suo articolo “Torniamo allo Statuto”, apparso il 1° gennaio 1897 sulla “Nuova Antologia”, tanto inviso alla storiografia di sinistra, lancia un incoraggiamento: “rivendicate al Sovrano i suoi diritti, e facilmente vi riuscirà di delimitare i poteri della Camera elettiva, rinfrancare quelli della Camera vitalizia, e per di più riattivare la vita e l’azione di entrambe, ritornandole alle loro vere funzioni”.
“Rinfrancare” e non calpestare, come si intenderebbe fare con il metodo consueto, prepotente ed arruffone, da parte del “governo” in servizio.
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