Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
igrazioni. Troppe volte abbiamo sentito appioppare a questo fenomeno carico di tragedie e di speranze l’aggettivo “epocale”. E’ proprio così? Questo spostamento massiccio di uomini, donne e bambini dai paesi d’origine verso una terra promessa, nemmeno sognata fino a pochi anni prima, è davvero qualcosa di nuovo, in grado di segnare lo spartiacque fra un’epoca e un’altra? Come tutti i luoghi comuni, anche questo del “fenomeno epocale” contiene un nucleo di verità: certo, di flussi migratori la storia ne ha registrati in ogni suo passaggio, ma questi che tanto impegnano e preoccupano popoli e cancellerie di oggi hanno tratti caratteristici che varrebbe la pena di paragonare con quelli di analoghi processi del passato. Solo dalla conoscenza, infatti, scaturisce la capacità di governare i fenomeni o, quanto meno, di non farsene travolgere.
Qui, naturalmente, è possibile soltanto cercare di evidenziare alcuni di questi raffronti e indicare qualche nodo cruciale, essendo le soluzioni ben lontane dall’essere state individuate dai responsabili politici dei paesi coinvolti. Innanzitutto, è bene ripetere che ai grandi movimenti di massa non si possono opporre muri, e non per una questione di morale o di carità, ma per la semplice inefficacia, a lungo termine, di un simile provvedimento. In un precedente articolo abbiamo abbozzato la storia – anche culturale – del Muro come protezione di un confine, come simbolo concreto di un Limite identitario; ma erigere muri non basta.
L’Italia, nella sua storia millenaria è stata protagonista attiva e passiva di flussi migratori: basterà ricordare le cosiddette “invasioni barbariche”, fino alle vicende post-unitarie, della fuga in massa dalla povertà, con destinazione tutti i continenti (per l’Africa, si trattò camuffare la “grande proletaria” da esportatrice di civiltà sotto le insegne di un rinato impero). Altri tempi. Ci limitiamo ad osservare che, pur invasa e devastata da popoli “giovani” e vitali, l’area geo-culturale che si riconosceva in Roma, anche e forse soprattutto dopo l’avvento del Cristianesimo, mentre palesava tutta la sua sopravvenuta debolezza sul terreno militare, delle Istituzioni e della stessa morale civica, conservava il prestigio di un’identità dominante che, fin dai primi momenti, non solo aveva affascinato i vincitori, ma li avrebbe conquistati, producendo sintesi tanto politiche (l’impero romano-germanico) quanto culturali (il cristianesimo intriso di sapienza romana).
Qualcosa di simile si sta verificando oggi, nel confronto fra la civiltà “occidentale” (così la definiamo per brevità) e quella islamica: lo vedremo fra poco. I nuovi fronti aperti alla migrazione verso l’Europa, dopo le rotte mediterranee, ricalcano in parte l’antica via della seta, che appare in questi giorni sempre più come la via della disperazione, che si fugga dalle guerre o che si cerchi di sottrarsi alla fame. In ogni caso, in gran parte questi migranti professano la religione islamica; di qui, subito dopo il problema dell’accoglienza, si pone quello di una problematica integrazione. In proposito, vale la pena di sottolineare, anche in risposta alle ben note prese di posizione di Papa Francesco, che vi sono sentimenti riferibili alle singole persone, che però – i sentimenti, intendiamo – mal si conciliano con il sentire collettivo dei popoli e che comunque, mentre il caso singolo commuove, migliaia di analoghi casi pietosi costituiscono un problema non solo politico, ma organizzativo e finanziario, oltretutto di lungo periodo.
Spesso si sottolinea – da parti interessate… - come l’apporto degli immigrati sia vantaggioso non soltanto in termini di ricchezza prodotta o di sostegno al nostro sistema previdenziale, ma addirittura sotto il profilo del nostro deficit demografico. Si dimentica in tal modo che uno degli aspetti dell’integrazione consiste nella mescolanza etnica, che può, entro determinati limiti numerici, sortire benefici; lo stesso fenomeno, però, moltiplicato indefinitamente, non può che sfociare nel “suicidio” dei popoli, nel volgere di poche generazioni. Del resto, la storia ha già registrato la scomparsa di popoli e civiltà, in processi di lentissima omologazione e di spesso indolore sopraffazione, che non possono preoccupare Chiese e Religioni, attente essenzialmente alle prospettive ultramondane, ma dovrebbero inquietare leader politici avveduti.
Ovviamente, dati i numeri attuali – che finalmente hanno suscitato l’allarme in altri paesi d’Europa, dopo le così a lungo inascoltate lamentazioni italiane – siamo ancora lontani da simili esiti; anzi, ci sembra di cogliere, nelle scomposte reazioni di alcuni paesi, sintomi di un rivisitato colonialismo “rovesciato”: come altro definire l’accoglienza/spoliazione – selettiva, nel caso tedesco – delle migliori risorse umane dei paesi di provenienza dei migranti? Al riguardo, fu anticipatore il grido di allarme – con i conseguenti provvedimenti restrittivi – lanciato anni fa da paesi come la Bielorussia e la stessa Russia, quando si trattava di semplici adozioni. Oggi, analoga esortazione ai giovani di non partire viene, per esempio, dalla Conferenza Episcopale del Congo, preoccupata dallo svuotamento di energie in atto, tale da compromettere il futuro di quel popolo.
Un’altra notazione di dettaglio si può apporre a margine della distinzione fra “profughi” (in fuga da guerre) e “migranti economici”, semplicemente in cerca di una vita migliore. Intanto, la fuga dalla guerra – o da regimi totalitari – riguardò anche l’Europa in epoche recenti, ma limitatamente a ristrette cerchie di politici e intellettuali: il resto della popolazione la guerra l’affrontò, gli uomini al fronte e le famiglie subendo fame, bombardamenti e occupazioni, senza per questo dar vita ad alcun esodo biblico.
Detto questo, si capisce come il suindicato criterio serva, ipocritamente, ad imporre comunque un limite ai flussi, ma non giustifichi il rimpatrio – peraltro problematico da molti punti di vista: accordi con i governi dei paesi di provenienza, oneri economici, complessità organizzative, adeguamenti legislativi – di tanti diseredati, spesso condannati non tanto alla rinuncia alla felicità, ma sic et simpliciter alla miseria più nera.
In effetti, proprio una sorta di neo-colonialismo – del resto già invocato da qualche isolato politico e da qualche ardito pensatore – potrebbe avviare a soluzione il problema delle migrazioni di massa. Certo, dovrebbe trattarsi di un neo-colonialismo lontano dai modelli predatori di quello storico (ai quali, per la verità, l’Italia rimase sostanzialmente estranea, molto portando in loco e costruendo e ben poco ricavando); dovrebbe trattarsi di una presenza della civiltà “occidentale”, capace, nei millenni, di creare ricchezza e caratterizzata da un onesto solidarismo, dove risorse naturali e umane andrebbero a sposarsi con capitali e tecnologie.
E torniamo a quanto anticipato in materia di confronti fra civiltà: se la nostra (di europei, ma non solo), imperniata sulla padronanza della Tecnica, sulla consolidata fruizione di diritti civili, sull’altrettanto consolidato – anche se oggi è in atto una pericolosa trasformazione – uso della democrazia, ma anche su di una diffusa secolarizzazione, riuscirà a imporre i suoi modelli a masse crescenti di migranti, portatori di una visione dove religione, diritto e partecipazione politica sono un tutt’uno, allora anche ospitare nei nostri spazi, angusti e popolati di vecchi, masse di nuovi cittadini giovani sarà possibile senza innescare devastanti conflittualità. Insomma, sono sul tappeto le ardue sfide dell’identità: chi non se ne rende conto, è destinato a soccombere.
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