Antike Vasenmalerei

I fiori di Breddo ovvero il tratto all’estremo

Ma come arrivare all’Isola se ponti non vi sono e navi non conducono?

di Piccolo da Chioggia

I fiori di Breddo ovvero il tratto all’estremo

Avevo ricevuto in dono due tavole in cartoncino. Su entrambe era figurato uno stesso quadro lagunare in due esempi lievemente differenti e tracciati con segni che sembrano spingersi all’estremo della stilizzazione. Era la basilica palladiana di San Giorgio erta sulle acque di Venezia. Sola, sovrana come un’architettura cristallina e ad essa antistante, superato il braccio di mare, ed in primissimo piano una riva non più riconoscibile e divenuta idea e null’altro. Su questa riva, abbandonati sulle lastre della pavimentazione, un vaso di fiori e delle frutta. Naviga sull’acqua un legno a vela appena riconoscibile dall’albero e dalla curva segnata della chiglia . 

Mi sono interessato all’opera del pittore delle due tavole, Gastone Breddo, e soprattutto al suo strano e vigoroso disegno per capire come potesse essere un tratto così estremamente sbrigativo senza apparire affatto caotico, così elementare senza essere puerile, in ultimo così espressivo senza cedere in nulla allo studio ma solo dato di getto dall’intuizione. Un disegno che può lasciare perplessi in molti fra i puristi del tratto preciso e meticoloso. Nel mio caso, complice il fatto che le due tavole erano state illuminate ad acquarello con pochissimi tratti dall’Autore e fanno bella mostra di sé su di una piccola parete bianca investita di luce atmosferica, i segni stilizzati dalla mano di chi in ogni caso si sa capace di inappuntabili tele di fattura classica, e qui rammento che Breddo è stato professore di accademia, danno un gaio vedere saturo di luce in virtù dei fiori, delle acque e dell’architettura, e trasfusi in una bella visione pare quasi siano un’imitazione, per via dei segni ridotti all’estremo, delle antichissime incisioni rupestri quali si ammirano sui manuali dell’archeologia alpina.

In queste semplici opere quindi non traluce tanto l’arte in sé già manifesta e molto sicura nei quadri su legno o tela del pittore, quanto si afferma l’aspetto di un loro approssimarsi all’espressività delle tracce rupestri, in quanto collezioni di segni che vogliono rappresentare l’estremo riassunto e ultimativo di una visione.

Trovare un esemplare dell’insuperato “Antike Vasenmalerei” di Adolf Furtwängler in una dispersa biblioteca rurale resta ancora un miraggio. Per esercitarmi nell’arte modestissima del ricalco devo dunque dimenticare gli splendidi disegni del libro del grande archeologo svevo. Un opuscolo con le tavole di Breddo trovato in via del tutto casuale si prestava magnificamente a quest’arte e su di esso seguivo colla matita queste estreme tracce e riassuntive delle visioni di vasi di fiori in riva al braccio di laguna antistante l’architettura del Palladio. In una tavola un vaso di fiori era curiosamente ornato con una delicata figurina aviforme resa, al solito, da quel tratto sbrigativo che mi attrae. Sul fondo non appare qui il regale edificio dedicato a San Giorgio, il quale possiamo immaginare nascosto alla vista dal rigoglio dei fiori, e oltre la banchina riposa la quieta distesa delle acque, solcata, come d’uso in queste fantasie veneziane del pittore, da due linee che stilizzano un legno a vela. L’impressione data dal quadretto è quella di uno spazio quasi vuoto ovvero, in complementare, d’una saturazione del vuoto compiuta dalla luce immateriale. E però sul motivo si affaccia il quesito: il vaso con la figurina aviforme cosa può o vuole esplicare? Volo al ricordo di una storia del Mahabharata: sulla montagna il rapace Garuda strappa l’erba miracolosa dalla quale si ha il soma, la bevanda di ebbrezza, per recarla a Indra, il nume vedico. Favola che ha la sua affine nell’Edda nordica, quando Odhinn trasformatosi in aquila conquista l’idromele, bevanda che dà il genio poetico. Nel Rg-Veda il soma è a sua volta un nume ed è ora sorgente, ora ruscello, ora pianta in un vaso. Diviene trasparente il senso sotteso della composizione in riva alla laguna: la pianta coi suoi fiori che germoglia nel vaso ricorda l’erba recata in un tempo antico dal fiero Garuda, e questi viene rammentato in un’effige dove ha dismesso il tratto epico di grifagno rapace e si è trasmutato in una più delicata figurina aviforme sul bacile. L’ebbrezza data illo tempore dalla bevanda spremuta dall’erba divina essa pure si è trasmutata, ed è ora la nuda contemplazione della distesa marina, del cielo ad essa sovrastante, dilemma visibile dell’infinito, e delle forme pinnacolari del bello perenne che nascono dalle “grandi Acque che portano in sé, come embrione, tutto l’Universo” ( così racconta il Rg-Veda) adombrate nei rudimentali ma chiari elementi del quadretto così superbamente stilizzato. 

In un’altra tavola, il vaso di fiori non vela che per un lembo soltanto il tempio di San Giorgio erto sull’Isola. L’ornamento del bacile non adombra più forme ma è in tratti. Il fiori e le foglie che fiammeggiano dal vaso proclamano che è stato compiuto il superamento dello stadio dell’indistinta virtualità insita nelle “grandi Acque” e siamo giunti nel dominio delle Forme. Oltre il braccio di laguna l’Isola racconta la favola antichissima del Suttanipada e quella a noi prossima del monaco Euthanasios nella novella del poeta romeno Eminescu. È l’Isola dei Beati, un Avallon, al quale non si accede se non quando “vi sono le ali” ovvero quando sia sopravvenuto un effettivo passaggio verso la realtà di ciò che è trascendente, spirituale. “A colui che ben intende è come fossero date le ali” è scritto in una pagina di antica letteratura sanscrita. È ancora, l’Isola, quel paradiso del quale portiamo l’oscuro ricordo e l’insopprimibile nostalgia. Nel Suttanipada, tradotto da Paolo Emilio Pavolini, l’Isola è la Svetadvipa erta a luogo del Nirvana entro le acque del lago Anavatapta. Curioso e quasi geniale per precisione con il senso della favola è il tratto che figura la tavola di Breddo: se alla Svetadvipa non si arriva per le acque del lago e questo ha un nome che pare voler dire, con l’a-nava in principio, che non sono navi che diano il transito all’Isola, nel quadretto vi è sulle acque solo un miserello ed unico navilio a vela e questo non pare voler fare da traghetto fra le due rive ma fluttua per una direzione ignota sul braccio di laguna antistante l’Isola palladiana. E sull’Isola la cupola della basilica con la lanterna ben precisata al vertice che ne segna l’apertura all’alto, rammenta l’arcana dottrina dell’uscita dalla sfera del Cosmo e l’ingresso in ciò che è oltre qualsiasi possibilità di immagine. 

Ma come arrivare all’Isola se ponti non vi sono e navi non conducono? Plausibilmente ci dobbiamo affidare alla contemplazione ed in questo immediato caso a quella estetica. Ce lo rammentano i vasi di fiori con le figurine avicole impresse e schizzati o dipinti da Breddo sempre in vista del mare e spesso con la magnifica basilica palladiana erta oltre le acque. Lo spettacolo contemplato diviene un’effige quieta, estetica in luogo di estatica, dell’ebbrezza indotta in altri tempi dal soma recato ai numi da Garuda. In tale acquietata e schopenhaueriana contemplazione il Wille viene tacitato per un istante e appare nella sua completezza la Rappresentazione, la Vorstellung. Di lì è possibile, e questo però resta sotto un arbitrio incognito ed imperscrutabile quale è quello di Varuna, che si aprano, appunto, degli spiragli verso ciò che è oltre qualsiasi possibilità d’immagine.  


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