Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Si sono svolti in questi giorni a Napoli, Livorno, Pisa e Lucca gli incontri del rabbino Jeremy Milgrom con gli studenti delle scuole superiori e con la cittadinanza. Il rabbino Milgrom, nato negli Stati Uniti ma residente in Israele dal 1968, è il fondatore del movimento “Religioni per la Pace” e dell'associazione “Rabbini per i Diritti Umani” che hanno come finalità il dialogo tra le diverse religioni ed etnie presenti in Palestina per trovare la strada per una pacifica convivenza. Milgrom ha anche passato tre anni nelle forze armate israeliane e ha combattuto la guerra del Kippur nel 1973. Il rabbino si trovava a Napoli per una conferenza dell'ONU sui diritti dei palestinesi e ha voluto essere presente anche nelle città toscane per portare la sua testimonianza e il punto di vista di un rabbino israeliano sulla questione della convivenza tra musulmani e ebrei a pochi giorni dalla proclamazione di una nuova intifada.
Quanto è importante parlare alle nuove generazioni di questi temi e offrire un punto di vista diverso sulla situazione in Palestina?
Quello che cerco di dare ai giovani è una prospettiva diversa rispetto a quella che hanno ogni giorno, una delle domande principali che gli studenti mi pongono è come sia la vita di tutti i giorni in quei luoghi e io rispondo che per molti aspetti è simile a quella che avete qui in Italia. In questi incontri ho cercato di spiegare diversi aspetti della cultura ebraica e musulmana, ad esempio ho spiegato il significato che il Ramadan ha per i musulmani. Ho trovato una platea dove molti ragazzi erano musulmani e di qui è partito il dialogo con loro.
Nel nostro Paese abbiamo alcuni politici che affermano che l'Islam sia una religione violenta e che predispone al radicalismo. Lei cosa ne pensa?
Ci sono stati periodi storici in cui l'Islam tramite i propri comandanti e re ha esercitato la violenza e la prevaricazione, così come hanno fatto il Giudaismo e il Cristianesimo. Nessuno qui ha le mani pulite. A questo proposito c'è un vecchio detto di un rabbino che dice: “Non mi importa di sapere qual è la tua denominazione religiosa, quello che mi interessa sapere è che tu sia imbarazzato dai suoi momenti di violenza.
Pochi giorni fa lei ha parlato a una conferenza a Livorno dal titolo: “Cosa possono fare gli italiani per il dialogo tra israeliani e palestinesi”, che risposta si è dato dopo la sua esperienza in Italia?
Questi incontri mi hanno impressionato positivamente, ho conosciuto molti attivisti anche tra i giovani. Gli studenti sono stati molto interessati e mi è capitato di trovarmene molti che alla fine delle conferenze sono rimasti oltre le due ore dell'incontro per chiedermi cosa potessero fare per il dialogo. Io ho risposto che a prescindere dalla Palestina, in molti luoghi, Europa e Italia comprese, esiste l'intolleranza, il rifiuto dell'altro, la paura per il diverso. Dobbiamo tutti e sempre promuovere il dialogo partendo dal rispetto reciproco e questo, dovunque lo fai, ha delle ripercussioni sì locali ma non solo. Non dimentichiamo che per molti studenti io sono stato il primo rabbino che loro hanno conosciuto e c'erano molti stereotipi e pregiudizi. Una volta si diceva addirittura che gli ebrei avessero le corna e anche il capolavoro di Michelangelo, il Mosè, è stato scolpito con due piccole corna. La cosa importante che anch'io ho fatto prima di fondare i due movimenti, è andare a conoscere chi sono questi “altri” di cui si parla e farsi conoscere a propria volta.
Adesso però c'è una situazione internazionale e interna a Israele che forse non permette un dialogo e una conoscenza dell'altro, penso per esempio all'intifada proclamata pochi giorni fa. Ci sono ancora spazi per il dialogo?
Quando gli ebrei e i palestinesi si incontrano fuori dal contesto israeliano il dialogo è molto più facile, in Israele ci sono delle zone dove c'è una forma di interazione e di rispetto tra le due parti. Il problema in Israele è la difficoltà di avere un dialogo normale perché gli ebrei partono da una posizione di potere e privilegio rispetto agli arabi. Le faccio un esempio: ho una amica insegnante in Germania che mi racconta che quando ha studenti palestinesi e israeliani questi diventano facilmente amici tra di loro. Ma in questi ultimi due mesi quello che sta succedendo in Palestina ha influenzato anche i giovani israeliani e palestinesi residenti in Germania. Questi contatti sono diventati sempre più difficili. Anche per me. Io vado molto spesso a visitare i campi profughi nei Territori Palestinesi, ho amici arabi ma questi contatti adesso sono bloccati per il fatto che è difficile attraversare il confine. Io non ho paura dei miei amici o delle persone del posto che conosco e con le quali collaboro. Ho paura che qualche pazzo possa farmi del male per non farsi sfuggire l'occasione di uccidere un ebreo.
A proposito di questa situazione, è diventata ormai un'utopia la proposta che molti analisti hanno formulato per uno stato unico, senza la divisione tra Israele e Territori Palestinesi ma con una partecipazione attiva della componente musulmana alla vita politica e senza più privilegi per gli ebrei, oppure bisogna pensare alle risoluzioni ONU per una divisione e per la formazione di due entità statali distinte?
Prima di tutto penso sia desiderabile uno stato unico multiculturale senza privilegi e con una partecipazione e la possibilità di accesso a cariche pubbliche per i musulmani. In secondo luogo sono convinto che sia possibile e terzo credo che in questo momento sia meno possibile rispetto al passato anche per la continua colonizzazione e occupazione, da parte degli israeliani, dei Territori Palestinesi che nemmeno Obama è stato in grado di impedire e che esaspera gli arabi.
Leggendo la sua biografia si apprende che lei ha fatto parte per diversi anni delle forze armate israeliane proprio durante la guerra del Kippur. Cosa le è rimasto di questa esperienza ed è stata formante o determinate per arrivare a capire l'importanza del dialogo?
Non ho avuto un'esperienza particolarmente traumatica nell'esercito, a parte un episodio di suicidio nella mia unità. Nel 1973, allo scoppio della guerra io ero nella riserva ma ho visto morire alcuni dei miei migliori amici. La leva militare è obbligatoria per tre anni in Israele, due anni per le donne. Questa ha fatto parte della mia formazione per diventare israeliano. Il vero punto di svolta è stata la nascita di mio figlio che mi ha fatto cambiare il punto di vista sul mondo e mi ha poi portato alla fondazione di “Rabbini per i Diritti Umani” e di “Religioni per la Pace”. Quando hai dei figli ti rendi conto che non puoi fare del male agli altri, dall'altra parte ci sono altri padri e altri figli. L'esercito è come una coperta che ti ottunde i sensi e quando sei dentro non capisci bene cosa stai facendo. Io volevo uscirne ed essere consapevole della realtà che mi circondava.
Un'ultima domanda. Tra pochi giorni è in programma una manifestazione del movimento “Rabbini per i Diritti Umani” contro l'occupazione dell'Area C dei Territori da parte dei coloni, quali saranno le prossime iniziative in programma per le sue due associazioni?
Al momento non sono in grado di risponderle, il movimento è pluralista ed è capitato che le mie idee non siano sempre state condivise da tutti, ma questo è anche il bello di “Religioni per la Pace”, il suo pluralismo è una ricchezza. Con “Rabbini per la Pace” stiamo protestando contro gli espropri delle terre dei contadini arabi da parte dei coloni israeliani ma non solo, abbiamo attività anche all'interno dello stato di Israele che riguardano l'aiuto ai poveri che siano cristiani, musulmani o ebrei. Prossimamente scriverò un commentario che verrà pubblicato sulla nostra rivista on-line, in cui parlerò attraverso la storia di Giuseppe, della mia visione. Questa storia è molto importante per me perché si parla di un fratello che viene abbandonato dai suoi e che, anni dopo, può riconoscere e dialogare coi suoi fratelli senza che questi sappiano chi lui sia. E' un ri-conoscersi. Tramite questa storia potrò dire quello che penso e chi sa se anch'io non venga rinchiuso in prigione per i miei sogni.
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