Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
gni giorno, le cronache riecheggiano scricchiolii dell’Europa, per una volta sinonimo di Unione Europea. Sì, a leggere i giornali di queste settimane, sembra proprio che l’edificio europeo, quello burocratico e finanziario non meno di quello politico e culturale, stia palesando crepe inquietanti.
Così, alla rinfusa, possiamo elencare fra le cause di questo allarme i provvedimenti restrittivi adottati in materia di frontiere da Svezia, Ungheria, Danimarca, Austria, Montenegro; i contrasti fra Italia e Germania non solo sulla flessibilità degli obiettivi di bilancio, ma anche sulla controversa interpretazione degli aiuti di Stato; un’ondata di crescente xenofobia che monta dalle piazze – e dalle urne – del Continente; la congenita incapacità di individuare e perseguire una politica estera comune; le sempre più evidenti debolezze della moneta unica e della connessa politica bancaria. Tutti segnali che riconducono ad una reviviscenza della sovranità nazionale e, nel migliore dei casi, ad una ricomposizione del problematico mosaico europeo sulla base di due diverse velocità, da riconoscere in due distinte categorie di paesi, con doveri e diritti più o meno ampi, ancora una volta in funzione di parametri economici.
In realtà, al netto di una sempre meno tollerabile retorica europeista, appare più che mai velleitario il processo di unificazione avviato almeno da Maastricht in poi e, non a caso, trattato dopo trattato, sottoposto per lo più al gradimento di assemblee di delegati, evitando il più possibile di interpellare direttamente il “popolo sovrano”.
Il sogno – in gran parte condivisibile – di uno Stato Federale, magari sul modello statunitense, rischia davvero d’infrangersi contro scogli rappresentati da diversità irriducibili degli Stati Fondatori e degli altri che via via hanno integrato l’Unione. Si può partire da quelle linguistiche: malgrado l’egemonia dell’inglese – per colmo d’ironia, proprio la lingua della Nazione orgogliosamente insulare, che rifiutò l’euro e che a breve potrebbe decidere, a seguito di una consultazione popolare, di uscire dall’Unione – le altre quattro lingue principali, fra cui la nostra, mai potranno scomparire dagli usi quotidiani, dalla letteratura, dalla legislazione. E come si può definire in termini unitari una compagine le cui componenti statuali non si riconoscono e non comunicano con la medesima lingua? Componenti che per di più nascono da processi storici diversissimi e spesso conflittuali fra loro, con strutture statuali ora unitarie e consolidate, ora recenti e federali, dove ogni tanto si rinfocolano conflitti etnici e culturali e frazionismi fino a ieri perfino sanguinosi? E tralasciamo anche il dato religioso, avvertito sempre meno come fattore identitario e pubblico, forse a seguito di una rimozione collettiva che, ove non effettuata, riporterebbe alla superficie delle coscienze europee le cruente divisioni e contrapposizioni fra protestanti, cattolici, ortodossi e laicisti in versione giacobina o bolscevica, con l’ulteriore complicazione del fattore islamico.
Vogliamo parlare, saltando di palo in frasca, dei sistemi fiscali? Come conciliare le aliquote più disparate, e perfino la natura di certi tributi, qua esistenti e cruciali, là marginali e perfino negati? E come conciliare le esigenze di paesi esportatori di manufatti e di paesi importatori di quei beni, di apparati produttivi organizzati e di economie fragili, dipendenti per lo più dal turismo o da una debole agricoltura, o ancora, quelle di paesi quasi autosufficienti in materia energetica con quelle di paesi quasi totalmente tributari dall’estero?
E la sicurezza? Soltanto da poco, e per merito (!) del terrorismo, ci si comincia a scambiare archivi e risultati delle indagini. E lasciamo perdere l’utopia – già coltivata dal generale De Gaulle – di un esercito europeo: siamo ancora invischiati nella NATO, nonostante la fine del sistema bipolare, e nelle beghe del peggior nazionalismo, del tipo di quello che s’impose in occasione dell’abbattimento del regime di Gheddafi ad opera di una coalizione franco-inglese, con conseguenze la cui portata dobbiamo ancora valutare, a poche centinaia di chilometri dai nostri confini, sulla nostra sicurezza e sulla nostra economia.
Già, la nostra economia; quella, dicono le vestali dell’euro, che si sarebbe giovata della stabilità introdotta dalla moneta unica; ma nelle virtuose e sussiegose sedi ufficiali, nessuno vuol riconoscere i danni arrecati alle nostre produzioni di eccellenza ed alle nostre esportazioni, a seguito dei diktat della burocrazia di Bruxelles e Strasburgo in materia di contingentamento e tracciabilità dei prodotti o di ripercussioni di avventati embargo decretati nei confronti di Stati di volta in volta verticisticamente definiti “canaglia”, a partire dalla Russia fino all’Iran e alla Turchia, e fino al contrordine di qualcuna delle centrali di potere sovranazionali.
L’Europa, si diceva. Abbiamo amato anche quella che nel Novecento si è lacerata in guerre civili insensate, e quella che ha dimenticato le sue origini greco-romane e quella che ha ingenerosamente bollato di oscurantismo il crogiolo medievale; quella che ha ritrovato sorriso e culto della bellezza per tutto il Rinascimento e il Barocco e quella che si è autoflagellata tra Riforma e Controriforma; abbiamo visto come tragica occasione perduta la stagione del Colonialismo, l’ultima espansiva per la nostra Europa, che oggi la reprime nel profondo della sua storia come causa di un fatale complesso di colpa, paragonabile a quello innescato dalle Crociate. E dire che secondo molti – che non sempre osano affermarlo ad alta voce – proprio un ritorno allo spirito coloniale, sfrondato dalle antiche vocazioni predatorie, potrebbe avviare a soluzione i problemi posti dai flussi migratori (secondo l’abusato e non praticato detto: “aiutiamoli a casa loro”).
Cosa ha da spartire con la precaria costruzione di oggi quell’Europa dei principi mecenati, dei grandi viaggiatori, degli intraprendenti mercanti, dei geniali condottieri, dei maestri di spiritualità, degli artisti ispirati? Ce lo dirà il futuro, anche prossimo, ma dobbiamo sapere che a trasformare l’Europa da “espressione geografica” (e culturale) a realtà politica non basterà la “generazione Bataclan”, se non verranno recuperati l’orgoglio dell’identità e il coraggio dell’intraprendenza, con la guida di una classe politica oggi invisibile e forse inesistente.
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