Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Federico Nietzsche
Si può dire che si levi un poco il vento della retorica, o in ogni caso il respiro dell’ inno, pure se acerbo, nel poemetto che Federico Nietzsche aveva composto, al pari di alcuni pezzi musicali per pianoforte, l’ultimo anno di scuola, prima di intraprendere lo studio universitario.
Se numeriamo gli anni si dovrebbe essere intorno al 1863; l’Italia, il cui stampo romano di fatto non cancella gli incerti, si èriunita in modi ambigui; nei paesi tedeschi, con direzione quasi parallela si avvicina, preparato dal Bismarck il biennio guerriero che porta alla Germania prussiana. Nel 1864 si spazzano via le anticaglie delle ambizioni danesi dallo Schleswig Holstein che diviene così “il settentrione teutonico”, e memorabile resta la vittoria navale sul Baltico del bravo ammiraglio veneziano ed austriaco Wilhelm von Tegethoff, ancora per poco un utilissimo alleato.
Poco dopo, il fatidico 1866, si scorna, e forse fu un atto compiuto con un’arroganza fuori misura, la suscettibilità dell’onore asburgico con la disfatta di Königgratz che toglie al provinciale monarca di Vienna supremazia politica su Sassoni, Bavaresi e Renani, per riunire tutti questi sotto la meccanica ala prussiana. E si ruba all’affetto sentimentale del povero imperatore cattolico, la bella Venezia che pure era stata conservata dalle armi austriache con la vittoria di Custozza e con la gloria di Lissa. Dove qui, sul mare Adriatico, il bravo Tegethoff impartiva all’Italia marinara la prima cocente lezione di buon comando e di affetto da parte dei marinai veneti.
È passato alla storia militare di Vienna l’ordine concitato dell’ammiraglio austroveneziano al fedelissimo timoniere Vianello da Pellestrina in atto di speronare a tutto vapore con la nave imperiale la corazzata italiana -o forse in spirito ancora piemontese-con un
dàghe dosso che i bùtemo sotto
perfetto endecasillabo in vernacolo lagunare. E pare che i bravi marinai dal dialetto a noi più che comprensibile avessero lanciato in preda all’entusiasmo, vedendo la flotta italiana ripiegare malconcia, navi squassate dalle artiglierie e fumanti d’incendi, a fumaioli divelti e alberi mozzati e poveri valorosi marinai in acqua, per l’ultima volta nella storia, il commovente urlo di gioia per la concessa grazia al coraggio ed alle armi del patrono della Dominante
San Marco, San Marco!
Questa in breve la temperie istorica della quale il futuro cantore di Zarathustra si trova, da scolaro, a vivere i preludi.
Per rispondere al quesito se per tutto ciò vi sia stata vera gloria è d’obbligo arrestarsi con il Manzoni alla sentenza che collocal’ardua risposta alla generosità dei posteri. E presto, di tanto, in tutt’altra forma ma con medesima direzione se ne avvede il Nietzsche. Da principio era stato sedotto dal mito germanico e teutonico, e pure bismarckiano; con l’acuirsi dello studio e della meditazione dei classici, con il respirare, pochi anni dopo, passata Sedan e proclamato a Versaglia il Reich, la strana malattia collettiva che prese il nome di “Reichsverdrosselung” ovvero “tedio del Reich” il filosofo dell’”aldilà di bene e male” si distacca dalla retorica del germanesimo e inizia a farsi una sorta di leale ma spietato bastian contrario. Arte plastica, musica, poesia, prosa, architettura e infine politica tedesche sono da lui sezionate o meglio vivisezionate con l’occhio freddo e ad essesono spesso contrapposte in margine di lievità e superiorità le superficialità in arte e resto, molto meno morali e pervase di gioia di vivere, latine. Per abbandonare un poco la retorica del racconto: le superficialità italiana e francese…
Ma allora il Nietzsche poeta diviene altro e molto più arduo a scandagliarsi. E qui è solo argomento del poemetto scolastico e a questo mi devo attenere.
Una costante credo si possa in ogni caso individuare comune pure ai componimenti del filosofo successivo e divenuto dinamite per l’Europa: la scrittura tedesca cristallina che poco o nulla concede a sensazioni subite senza essere state precisate da una mente che voleva temperare in nobili forme il balenare poetico.
Sezioni critiche mi sono estranee essendo io lontano tanto dalla cattedra quanto dalla pratica della poesia. Voglio peròrammentare al lettore che avevo già nominato questa lirica, letta la prima volta in una antiquata antologia scolastica da scuola superiore (caso davvero notevole!), nel capitolo passato e dedicato ai termini che nei quattro gruppi linguistici dell’Europa degli ultimi secoli individuano il grande scomparso della filosofia di Nietzsche: Dio. Mi pare quasi che ora ogni commento si faccia superfluo: l’annunzio della grande morte aveva in preludio una poetica dichiarazione d’ignoto…
Atteniamoci solo al nudo fatto linguistico. Gott è alla lettera l’”invocato”. Dio è il “dì luminoso”. Bog rammenta il Bhaga vedico, Theos è “spirito”. All’invocato ignoto –tale il senso stretto del dativo germanico “dem unbekannten Gotte”- lo scolaro geniale leva le mani. In attesa di segni? O di aiuto? Lasciamo le congetture sentimentali. Ogni lettore interpreti come si sente il poemetto. Trovo singolare d’istinto che lo scolaro dalla coscienza ben più che sveglia non levi al cielo gli occhi. Dio per chi parla latino non è appunto anche in senso trasposto il dì luminoso?
Dem unbekannten Gotte
Noch einmal, eh ich weiterziehe
Und meine Blicke vorwärtssende,
heb ich vereinsamt meine Hände
zu dir empor, zu dem ich fliehe,
dem ich in tiefster Herzenstiefe
Altäre feierlich geweiht,
daß allezeit
mich deine Stimme wieder riefe.
Darauf erglüht tief eingeschrieben
Das Wort: Dem unbekannten Gotte.
Sein bin ich, ob ich in der Frevler Rotte
Auch bis zur Stunde bin geblieben:
Sein bin ich-und fühl die Schlingen,
die mich im Kampf darniederziehen
und, mag ich fliehn,
mich doch zu seinem Dienste zwingen.
Ich will dich kennen, Unbekannter,
du tief in meine Seele Greifender,
mein Leben wie ein Sturm Durchschweifender,
du Unfaßbarer, mir Verwandter!
Ich will dich kennen, selbst dir dienen.
Ancora un’istante
prima che prosegua
e lo sguardo innanzi diriga;
in solitudine
le mani levo a te,
dove cerco riparo,
e cui nel profondo del cuore
ho dedicato altari festosi
a che
in ogni tempo
la tua voce io intenda.
Sopra vi ho inciso
- infiammato-
questa parola:
al Dio ignoto.
Chè suo sono io
se anche
nella torma degli empi -
a volte mi attardo:
suo sono io – e se sento i lacci
che mi traggono a questa lotta di giù,
e voglio fuggire,
questi ancora mi costringono a lui.
Ti voglio conoscere,
incognito che mi artigli nell’anima
e come tempesta mi traversi la vita
-inafferrabile,
ancorché del mio stampo!
Ti voglio conoscere dunque
e pure servire.
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