Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
gni volta che Bergoglio affronta temi economici tradisce una visione pauperista e terzomondista. L’ultima l’altro giorno. In occasione di un’udienza di Confindustria in Vaticano, ha ammonito gli imprenditori a non incentivare il precariato, a rifiutare favoritismi e a non calpestare la dignità del lavoratore in nome dell’individualismo e del profitto. Per carità, il Papa fa il suo mestiere e molte considerazioni sono condivisibili. Ma diversi passaggi non convincono. Vediamoli.
Partiamo dal precariato. Più che l’incertezza, il vero nemico dei lavoratori è la disoccupazione. E a generare quest’ultima sono una burocrazia ostile, una giustizia da terzo mondo (per l’esecuzione di un contratto in Italia occorrono di media 1.210 giorni, mentre in Francia 331 e in Germania 394) e soprattutto una pressione fiscale infernale. Secondo la Cgia di Mestre, la pressione fiscale effettiva in Italia sarebbe arrivata al 50,2% del Pil. Per rendervi conto, prendete una moneta da 2 euro e considerate che oltre la metà – un euro e quattro centesimi – se la prende lo Stato.
Raccomandazioni. Se partiamo dal presupposto che nella mia azienda, officina o negozio assumo chi ritengo più idoneo a un determinato lavoro e che nel privato le “segnalazioni” sono legittime, va da sé che le raccomandazioni aventi una ricaduta negativa sulla collettività presuppongono l’intermediazione dello stato e della politica. Bergoglio, dunque, ha sbagliato destinatario. Avrebbe dovuto ammonire certi politici, certe cooperative e una certa curia piuttosto che gli imprenditori.
Capitolo imprenditori. Anche qui una premessa: non mancano quelli senza scrupoli e che operano al di fuori del mercato, tra intrallazzi e appalti pubblici. Ma come considerare i tanti imprenditori che creano beni, servizi e opportunità di lavoro nonostante uno stato rapace, inefficiente e iper regolamentatore? Eroi. O giù di lì. Direte: ma mica sono filantropi, lo fanno per proprio interesse. Vero. Ecco un’altra questione che il Papa e i demagoghi anticapitalisti sembrano non capire. Le imprese non nascono per creare posti di lavoro, ma per rispondere ai bisogni della società e all’ambizione personale. Suonerà strano a molti fautori della giustizia sociale, ma non sempre le conseguenze dell’azione umana corrispondono alle intenzioni dell’attore. Imprenditori spinti dall’egoismo e dal profitto possono benissimo creare effetti positivi per gli altri, mentre statalisti ispirati dalla giustizia sociale possono produrre spreco e povertà, tradendo gli obiettivi di partenza. Adam Smith sostenne "non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che possiamo aspettarci il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse". Antonio Martino, più provocatoriamente, ha detto che “Il padre di San Francesco ha aiutato i poveri più efficacemente del figlio”.
Ma la cosa che sconcerta di più sono le continue critiche che Bergoglio rivolge al libero mercato, ormai il maggiordomo dei vecchi gialli. Cos’è il liberismo? È una teoria economica che auspica la libera iniziativa individuale e il libero commercio con un intervento dello Stato limitato a determinati settori come la giustizia, l’ordine pubblico, la costruzione di infrastrutture ecc.
Ora, la storia del secolo scorso e i quotidiani casi di corruzione, di malasanità, mala gestione di strade, immobili e ogni altro bene pubblico dovrebbero mettere tutti d’accordo che: a) il mercato rappresenta lo strumento più efficiente per la creazione e distribuzione di risorse; b) la spesa pubblica è improduttiva; c) le tasse sono depressive. Eppure c’è chi nega ancora l’evidenza. Per restare in ambito religioso, è il caso di dire che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere.
Il liberismo (o il neoliberismo, per usare un termine amato dai nemici del mercato) è accusato, tra le altre cose, di essere insensibile rispetto alle esigenze di solidarietà e giustizia sociale. Falso. Non solo il liberismo non ha mai rifiutato la spesa pubblica per motivazioni sociali, ma tramite alcuni dei suoi più grandi pensatori ha individuato alcune tra le soluzioni più interessanti e efficaci di solidarietà. Friedrich Von Hayek teorizzò la necessità di un reddito minimo universale e Milton Friedman l’imposta negativa sul reddito.
In realtà, il peggior nemico del welfare è lo stesso stato sociale che, attraverso anni di mala gestione, ha fallito e fallisce nell’efficienza dei servizi e negli stessi obiettivi. Un esempio? Lo scorso dicembre Il Sole 24 ore, ha calcolato che 2,6 miliardi provenienti da l’8 e dal 5 per mille e destinati alle mense dei poveri, alle parrocchie o alle associazioni non sono arrivate ai beneficiari a causa della cattiva intermediazione dello stato. Per la serie: crescono le burocrazie, diminuiscono i servizi.
Al contrario, per l’eterogenesi di cui si accennava sopra, il mercato riesce dove lo stato sociale puntualmente fallisce. Quante volte abbiamo sentito parlare dei terribili effetti sociali ed economici della globalizzazione? Ecco qualche dato: 1990, 1 miliardo e 958 milioni di persone vivevano sotto il livello di sussistenza, mentre oggi ne sono 702 milioni. Sempre troppi, ma ciò vuol dire che i denutriti sono passati dal 23% della popolazione mondiale al 12,9. Senza dimenticare che, nello stesso lasso di tempo, la mortalità è diminuita del 53%. Merito dell’allargamento dei mercati e delle nuove tecnologie alimentari o di programmi di sviluppo decisi in un palazzo di vetro da parrucconi incravattati? Giudicate voi.
La verità è che certi numeri e certe analisi saranno sempre rifiutate. Ci sono ideologie e filoni culturali che amano così tanto i poveri da alimentare la povertà e farne una bandiera.
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