Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Le frittelle di San Giuseppe
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, si celebra in molti luoghi d’Italia con grandi falò e diverse manifestazioni gastronomiche.
A Valguarnera, nella provincia di Enna si vuole rievocare la povertà del Santo e quindi anche della sua Sacra Famiglia con una singolare usanza: i ricchi del paese preparano per i meno abbienti enormi costruzioni piramidali dette “tavole di San Giuseppe”, imbandite di ogni tipo di cibo e dolciumi. Naturalmente tre degli invitati, con costumi dell’epoca dovranno impersonare Giuseppe, Maria e Gesù. Ma se l’ospite vuole fare le cose in grande dovrà fornire il travestimento anche per i genitori della Madonna, sant’Anna e san Gioacchino, e per i dodici apostoli.
La tradizione dei banchetti per i poveri nel giorno di san Giuseppe si ripete in molte altre località italiane, soprattutto del Sud. A Santa Croce Camerina, nel ragusano, s’imbandiscono le “cene” in onore del Santo con squisiti prodotti locali, sebbene la specialità della festa sia un tipo di pane lavorato e decorato a mano che raffigura alcuni oggetti legati alla figura di san Giuseppe, come ad esempio il bastone fiorito. Il pane viene preparato dalle persone che hanno fatto voto al santo. Contemporaneamente tre poveri del paese nelle sembianze della Sacra Famiglia di Nazareth girano per le case dove sono state allestite le “cene” mangiando e portando via qualche cibo. A festa finita, il pane rimasto verrà messo all’asta in piazza.
Le tavole imbandite di san Giuseppe vengono chiamate “matre” a San Marzano di Taranto; e a Vallelunga Pratemano, nella provincia di Caltanisetta, si preparano per i “verginelli” che sono i bambini poveri del paese: a tavola, davanti ad ogni “verginello”, si colloca un grande pane che pesa dai 3 ai 5 chili di forme varie, a bastone, a treccia, a giglio. Inoltre l’usanza vuole che vi siano un cedro, una lattuga ed un finocchio. Poi al centro si mettono gli altri cibi che consistono nella frittura di ortaggi, soprattutto cavolfiori e carciofi, uova sode e olive. Ebbene, cavolfiori fritti, detti “frittelli” vengono offerti per San Giuseppe anche a Roccantica di Rieti.
Cibi fritti, ma soprattutto dolciumi, si preparano in molte altre località per onorare il padre putativo di Gesù; e, infatti, la tradizione è talmente diffusa che il Santo è stato chiamato popolarmente “San Giuseppe frittellaro”. Tant’è vero che una volta, il 19 marzo, i bambini cantavano questa filastrocca di porta in porta, chiedendo ad amici e parenti le tipiche frittelle dolci:
Come è buono, come è caro,
San Giuseppe frittellaro!
Ad ognuno una frittella
che è lucente come stella.
Una tradizione, quella di consumare dolci fritti, che è tuttora viva in molte località italiane, come ad esempio a Itri, nel Lazio meridionale, fra i monti che separano Fondi da Formia, celebre come patria di Fra Diavolo, dove la notte della vigilia della festa si accendono enormi falò in onore del santo. E mentre ardono i fuochi si mangiano le “seppele”, cioè le frittelle dolci, consumate dopo la cena a base di legumi vari con salsicce. Quando a terra vi rimane soltanto la brace i ragazzini gareggiano nel cosiddetto “salto del fuoco” gridando: “Evviva san Giuseppe con tutte le seppelle appriesse”, cioè con “tutte le zeppole o frittelle appresso”.
L’usanza di accendere dei falò alla vigilia di san Giuseppe è abbastanza diffusa in tutt’Europa: come spiega Alfredo Cattabiani nel “Lunario” (Mondadori), a causa della sua collocazione nel calendario tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, la festa ha ereditato alcune tradizioni delle religioni precristiane che celebravano durante l’equinozio primaverile la fine dell’anno vecchio e la nascita del nuovo bruciando le cose vecchie e inutili in grandi falò dalla funzione purificatrice e rigenerativa.
La funzione calendariale della festa di San Giuseppe ha ispirato anche alcuni proverbi. Nel Veneto si dice: “San Isepo protetor de la tera el porta el bel de la primavera”.
Oppure:
Per San Isepo leva la man,
ch ‘l te vardi del malan;
del malan in casa e in tera,
nel segnal di primavera,
e cioè, “per San Giuseppe alza al cielo la mano perché ti guardi dal malanno, dal malanno in casa e in terra, nel segnale della primavera”.
Le cerimonie dei “fuochi di san Giuseppe” sono diffuse in tutto il Paese, da nord a sud. A Modica, in provincia di Ragusa, si accende dopo cena un grande falò, detto “la vampata”, che arde per tutta la notte davanti alla chiesa dedicata al santo. A Lezzeno, in provincia di Como, la cerimonia dei roghi è documentata fin dal 1190 e viene premiato il più grande: qui è più evidente la funzione del falò purificatore perché si bruciano anche sedie e mobili rotti insieme con paglia e alberi che simboleggiano l’anno vecchio.
A Rocca San Casciano, a Forlì, c’è addirittura una gara fra i due rioni principali del paese per il falò più spettacolare. E a Scicli, nel ragusano, si preparano i “pagghiara”, dei pagliai da bruciare la sera di san Giuseppe mentre per le vie del paese si snoda una singolare processione, in ricordo della fuga in Egitto.
E anche nel mio Paese, la Spagna, si accendono fuochi per celebrare san Giuseppe: ad esempio a Valencia, nel levante spagnolo, dove esiste la secolare tradizione delle “Fallas”, che sono enormi macchine carnascialesche di cartapesta, alle quali lavora gran parte della popolazione durante tutto l’anno, e che poi vengono bruciate in grandi falò beneauguranti!
Ma torniamo alle nostre “frittelle di san Giuseppe” che, secondo i luoghi, ricevono nomi diversi: “frittelle di riso” in Umbria, “zeppole” a Napoli e molti altri. A Roma erano già preparate nell’antichità, durante le “Liberalia”, le feste in onore del dio Libero della fecondità e dei raccolti. Il 17 marzo gli adolescenti romani prendevano la toga virile mentre alcune donne anziane incoronate con l’edera, che venivano chiamate “sacerdotes Liberi”, preparavano su fornelli portatili e vendevano per strada focacce di farina e miele chiamate “libae” o “frictilia”. I romani le compravano e ne offrivano subito una parte alla divinità, mentre le restanti era consumate fra danze e canti.
Legittimi eredi di quelle antiche frittelle sono i tradizionali “bignè di San Giuseppe” che a Roma sono ripieni di crema e, naturalmente, rigorosamente fritti. Una volta i migliori erano quelli del quartiere Trionfale, nei pressi di San Pietro, attorno alla parrocchia di San Giuseppe, dove la festa era più sentita e infatti durava un’intera settimana: “Venite tutte qui Ciumachelle belle,/ venitene a magnà le mie frittelle!”, gridavano i “frittellari” ambulanti alle ragazze che a Roma erano vezzeggiate con appellativo di “ciumachelle”, lumachine. E più di un romano troppo goloso alla fine della giornata tornava a casa intossicato da creme poco genuine.
Al calar della sera, per azzittire i bambini che, ormai stanchi, cominciavano a piagnucolare, le mamme, quelle “romane de Roma”, raccontavano loro, in dialetto romanesco, la “vera origine” delle frittelle, con la storia in versi di un improbabile san Giuseppe che, giunto in Egitto, si arrangiava a “frittellaro” per sbarcare il lunario:
San Giuseppe faceva er falegname
e benché fusse artista de talento
non se poteva mai levà la fame
pe' cquanto lavorasse e stasse attento.
Un giorno se n’annò in Egitto co’ Maria,
e dopo un par de giorni ch’arivorno
aprì de botto ‘na friggitoria.
Co’ le frittelle fece gran affari.
E apposta in tutta Roma, in de sto giorno,
sortono fòra tanti frittalari.
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