Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
“Una follia organizzata e completa”. Parola di Stendhal, primo ed entusiasta biografo di Rossini e del suo successo. Capolavoro del genere “turchesco” e forse capolavoro assoluto del Rossini buffo, L’Italiana in Algeri approda sul palcoscenico del teatro dell’Opera di Firenze a partire da martedì 15 sino a sabato 26 marzo, per un totale di sei recite.
Con il Ratto del Serraglio di Mozart, L’italiana è sicuramente la più nota tra le “turcherie”, tipo particolarissimo di spettacolo nato almeno un paio di secoli prima. Quando nel 1813 l’opera di Rossini vide la luce a Venezia, il genere era ormai alquanto noto e del resto non si trattava neppure di un soggetto originale: il libretto di Angelo Anelli era infatti già stato musicato da Luigi Mosca e rappresentato alla Scala nel 1808; opera oggi dimenticata come il suo autore, e basta del resto un confronto anche superficiale tra i due lavori per capirne le ragioni. La musica di Mosca è sicuramente elegante ed aggraziata, ma non ha nulla della forza travolgente del genio rossiniano.
Il personaggio del “turco” era dunque ormai di casa sui palcoscenici europei e quindi il bey d’Algeri Mustafà, che stufo della moglie decide di … movimentarsi la vita con una fanciulla italiana, decisione di cui si dovrà amaramente pentire, poteva vantare diversi precedenti; anche tutto il male che si è detto del libretto dell’Anelli è sicuramente eccessivo e ingiustificato: Mustafà incarna perfettamente la figura dello “sciocco gabbato” che risale attraverso la commedia dell’arte nientemeno che a Plauto e all’Atellana latina, ma ci sono se non altro dei tentativi di dare una caratteristica autenticamente “esotica” al testo, quando ad esempio il capo delle guardie Haly fa notare a Mustafà che “ di Maometto la legge non permette un tal pasticcio”; il coro iniziale ricorda (certo in modo molto soft) la condizione della donna nell’Harem, mentre si parla di “Kaimakan”, titolo e grado effettivamente esistente alla corte turca. Al di là di questo, la vicenda è sicuramente paradossale, ma scorre benissimo malgrado la sproporzione, del resto di regola, tra il primo e il secondo atto.
In un lungo processo, dall’epoca delle Crociate, moresche, mascherate ed intermedi musicali avevano visto la figura del turco sul palcoscenico: e così l’immaginario europeo dà corpo a una rappresentazione iconografica in cui confluiscono conoscenze e tratti dell’Oriente”, insieme a paure, desideri e fantasmi propri. E’ da qui che nasce uno dei più fortunati temi dello spettacolo musicale, chiamato dagli storici Turcheria, con cui si definisce un particolare aspetto del gusto “dell’esotico”. Per “turco” non si intende soltanto l’Ottomano, ma qualunque musulmano venisse dal Vicino Oriente; un po’ come venivano chiamati “Franchi” tutti gli “Occidentali” o Cristiani. Se ancora almeno sino all’assedio di Vienna(1683) il “Turco” è il nemico che incute terrore e spavento, questo non significa che a volte non prevalga la curiosità per un mondo “altro” descritto da viaggiatori e cronisti seicenteschi, che poi finisce stilizzato nei balli di corte fiorentini e parigini: memorabile per tutti la cerimonia satirica dei finti turchi nel Borghese Gentiluomo di Moliére con musiche di Lully, (1670) tra cui la celeberrima Marcia per la cerimonia turca. In simili contesti la turquerie si risolve, dal punto di vista stilistico, nella ricostruzione oleografica di un certo colore appunto ‘turchesco’ e in trame basate su una serie di situazioni buffe o assurde provocate dalle diversità di usi e costumi, dove il comico scaturisce dall’impossibile confronto tra due mondi lontanissimi. L’harem, il serraglio, la donna o l’uomo europei catturati e ridotto in schiavitù per ordine di un sultano, i conseguenti tentativi di fuga e, a conclusione, la libertà finale grazie alla magnanimità del sultano o al suo desiderio di liberarsi dagli occidentali rivelatisi insopportabili: sono tutte costanti narrative del filone turchesco che vengono supportateda altrettante costanti musicali. Oltre a questo, la comicità nasce della contraffazione del linguaggio o dallo stravolgimento di cariche e cerimonie (vedasi appunto nell’Italiana le nomine a kaimakan e pappataci).
Se dunque siamo ancora una volta difronte ad un topos in cui confluiscono elementi di varia origine, sembra però che il soggetto dell’Italiana possa trarre origine da un episodio reale : nel 1805 una signora milanese, Antonietta Frapolli, fu rapita da alcuni corsari algerini e visse per qualche tempo nell’harem del Bey d’Algeri; si vuole che a innamorarsi di lei fosse Mustafà-lbn-Ibrahim, che però salì al potere nel 1806, un anno dopo il rapimento. La bella dama fu del resto poi liberata, ma quando le si chiedeva delle sue avventure nell’harem, pare si limitasse a rispondere con un sorriso … La sua storia venne raccontata, senza far nomi, in La vita intima e la vita nomade in Oriente (1855) della Principessa di Belgioioso. Secondo invece altri, tra cui il celebre latinista Cesare Questa, si ritroverebbe in quest’opera lo schema del “ratto del Serraglio” il cui archetipo si troverebbe in alcune tragedie di Euripide e commedie di Plauto. Comunque stiano le cose, è certo che, come ricorda Luigi Rognoni, uno dei migliori studiosi di Rossini “Le stesse strampalate parole del libretto, che è ancora una tipica ‘turcheria’ settecentesca, si colorano in Rossini di uno spirito totalmente nuovo, divengono essenziali nel meccanismo musicale, contenuto paradossale di un ritmo indiavolato (…) un “montaggio” musicale di situazioni siffatte, porta l’estro rossiniano a ‘vuotare il sacco’ e a creare un tipo di comicità ossessiva che fa pensare a quel meccanismo inverosimile che sarà poi individuato dal linguaggio cinematografico delle vecchie comiche ‘mute’ nelle quali il ritmo visivo ed il ‘crescendo’ sembrerebbero muoversi in base alla stessa necessità e coerenza espressiva dell’opera buffa rossiniana, poco importi la logica o il verosimile dell’azione”. Sempre Rognoni metteva in risalto come il ritmo sia l’elemento che, nell’opera buffa, sta alla base dell’espressione comico-musicale. Rossini però non adatta mai il ritmo musicale alla scansione della parola, ma la parola viene “interrotta, frammentata, ridotta infine spesso alla scansione di quelle note ribattute che costituisce una delle formule più frequenti e suggestive del comico rossiniano”. Questo significa che spesso abbiamo l’impressione che la musica, ben lungi dall’adattarsi in qualche modo alla parola, infierisca su di essa, martellandola e in qualche caso stravolgendola, o meglio creando degli effetti che sono del tutto indipendenti da essa; esempio più tipico il finale del primo atto, dove il travolgente crescendo musicale si diverte a “frammentare” vere e proprie onomatopee.
“A Mozart, nel film Amadeus, hanno fatto dire che ‘le note sono come scarabocchi sopra e sotto le righe’, ma spetta al direttore d’orchestra il compito di renderle vive”. Lo ricorda il maestro Bruno Campanella, direttore d’orchestra dell’edizione fiorentina dell’ Italiana, il quale si augura che “il pubblico vedrà come la musica di Rossini prenda vita dalla muta carta, specialmente alla fine del primo atto, e comprenderà perché Stendhal definì l’opera “una sublime follia organizzata”. L’edizione in programma nel capoluogo toscano già ammirata al Teatro Comunale nel 2010, è quella di Joan Font, leader della compagnia catalana Els Comediants, coprodotto dal Maggio Musicale Fiorentino con il Teatro Real di Madrid, l’Opéra National de Bordeaux e la Houston Grand Opera.
Il regista si avvale delle scene essenziali e fiabesche e dei costumi coloratissimi di Joan Guillén per stilizzare i personaggi e i loro ruoli: turbanti soffici e giganti con casacche colorate e babbucce con punta all’insù per i corsari barbareschi e una veste bianca per la candida Isabella. La carica ironica e buffonesca dell’opera di Rossini è resa nelle scene, tra l’altro, da un enorme fiasco di vino chianti, mentre la consacrazione di Taddeo in Kaimakan avviene tramite una gustosa trasformazione del personaggio in un pupazzo gigante; Mustafà, elevato all’immaginaria dignità di Pappataci è innalzato su un seggiolone.
Le luci di Albert Faura e le coreografie di Xerv i Dorca vogliono contribuire a rendere un’atmosfera esotica e onirica insierme trasformando la vicenda della povera ma astuta Isabella catturata dai pirati in qualcosa al di fuori dello spazio e del tempo, assimilabile a una fiaba. Nei principali ruoli vocali si alternano Marianna Pizzolato e Victoria Yarovaya (16, 22) in quello di Isabella, Pietro Spagnoli e Marko Mimica (16,20,22) per Mustafà, Boyd Owen / Patrick Kabongo Mubenga per Lindoro, Omar Montanari e Biagio Pizzuti (16, 22) per Taddeo.
La trama dell’opera
ATTO I
Mustafà, bey di Algeri, è nel suo palazzo. Deciso a liberarsi della moglie Elvira, la destina a Lindoro, schiavo italiano ancora innamorato della donna cui era legato in patria, e ordina al capitano dei corsari Haly di procurargli una fanciulla italiana. Sulla spiaggia vengono catturati i passeggeri di un vascello appena naufragato e tra questi compaiono Isabella, l’innamorata di Lindoro, e il suo spasimante Taddeo, del quale la giovane si finge nipote per evitargli la schiavitù. La donna comincia quindi a sedurre Mustafà, ottenendo persino Lindoro, che il Bey stava per inviare in Italia con Elvira, come suo schiavo personale.
ATTO II
Tutti sono stupiti della nuova remissività di Mustafà. Mentre Isabella e Lindoro preparano un piano per la fuga, Taddeo è nominato dal Bey, che vuole così assicurarsi la sua complicità, Kaimakan, ossia luogotenente. Isabella, sconvolta del modo in cui Mustafà tratta la moglie, lo invita a prendere il caffè nelle sue stanze per mostrare alla donna, nascosta, il giusto comportamento con i mariti. Il Bey, convinto che l’Italiana si sia finalmente decisa a cedere, ordina a tutti di abbandonare la stanza, per restare solo con la ragazza, non appena l’udranno starnutire. Ma Teddeo, geloso, rifiuta, mandando così il Bey su tutte le furie. Lindoro comunica a Mustafà che Isabella, ora follemente innamorata, vuole nominarlo suo Pappataci, finto titolo destinato ai fidanzati che impone di mangiare, bere, dormire e soprattutto tacere. Con la scusa dei festeggiamenti, Isabella riesce a radunare tutti i prigionieri italiani e, mentre il Bey è concentrato a svolgere per il meglio il suo ruolo di Pappataci, a fuggire da Algeri. Scoperto l’inganno a Mustafà non resta che consolarsi con Elvira, giurando di lasciare perdere per sempre le Italiane.
Date e orari
Mar 15 marzo, ore 20:00
Mer 16 marzo, ore 20:00
Dom 20 marzo, ore 15:30
Mar 22 marzo, ore 20:00
Mer 23 marzo, ore 20:00
Sab 26 marzo, ore 20:00
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