Piccole storie

Il circolo del Bridge

A Padova nei pressi di riva Paleocapa giusto a pochi passi dal laghetto che questo ramo di acque forma tra il ponte metallico...

di Piccolo da Chioggia

Il circolo del Bridge

In vari passati capitoli avevo nominato la riva Paleocapa in quel di Padova, quella graziosa riviera che costeggia il ramo del Bacchiglione che scorre deciso verso la tramontana inoltrandosi nella villa. Dapprima separato dalla strada periferica da un bel prato sul quale con indubbia intelligenza il comune ha piantato degl’alberi, ciascuno munito di un cartiglio sul quale è segnata specie botanica e nome comune della pianta, il ramo di acque lentamente correnti lambisce la vecchia cinta muraria fino ad arrivare al ponte detto della saracinesca. Ancora presso il prato, prima di arrivare a questo transito, le acque avevano indugiato sotto un ponticello metallico del tipo sospeso, al cui semplice passaggio ad andatura un po’ svelta le catene che sostengono le piattaforme, sulle quali si cammina per andare all’altra riva, vibrano rumorosamente. Da solo, a volte mi ero dilettato a dondolarmi poggiato sulla balaustra e tutta la struttura, postasi in risonanza con i miei moti, tintinnava cigolava ed improvvisava una sorta di curioso e non disarmonico lied metallico che avrebbe di sicuro ispirato qualche futurista redivivo dei tempi eroici. Pericolo, nessuno. Il ponte viene controllato di anno in anno e i cavi di sostegno, i dadi di avvitamento mi sembrano, come prevede la buona ingegneria, sovradimensionati. 

Al ponte della saracinesca si prosegue a settentrione su di un sentierino sopraelevato tanto sul piano stradale quanto sullo specchio della lenta corrente e si arriva ad un altro ponte metallico, questo però carrabile, che sta proprio in ombra della famosa Torlonga, eretta su di un castello della vecchia signoria carrarese. Guardando a meridione, dalla balaustra all’intradosso della corrente spariscono quasi entrambe le rive dato che la vegetazione arborea di salici, carpini ed altre specie è fitta e sembra di essere su di un corso d’acqua in aperta campagna. Eppure siamo a pochi passi dalle tre piazze centrali di Padova. Non posso non rammentare che sui luoghi di antiche città note alla storia ed agli archeologi oggi vi sono pascoli, poderi, alberi. Nemmeno pietre delle antiche costruzioni, levigate a sassi dal tempo, sono rimasti in superficie e solo qualche attento e difficoltoso scavo avverte, a studi fatti, che colà sorgevano case, templi, terme. La natura ha un grado di ripresa della propria vita sulle costruzioni che appare straordinario. Da questo ponte vedo che se l’abitato d’intorno per avventura decadesse come spesso è successo nel volgere dei secoli, in poche stagioni la riva tornerebbe ad una condizione arcadica quale nemmeno i bravi professori della poesia settecentesca riuscirebbero ad immaginare… Il dolce Bacchiglione muterebbe in ogni caso il suo nome e forse riavrebbe il bel titolo latino di Medoaco, ovvero “ acqua di mezzo” fra Adige e Brenta…     

È stato al tempo della scuola quando venivo a trovare dei parenti in una casetta di riva Paleocapa giusto a pochi passi dal laghetto che questo ramo di acque forma tra il ponte metallico e l’abbozzo di bertesca che di pochi metri prelude alla severa Torlonga. Nel capitolo passato che avevo titolato “Pittori sui ponti” avevo descritto in modo più esteso tutto l’intorno di questa piccola località della villa padovana. Avevo raccontato della vicina caserma che una volta era della cavalleria, ed ora aggiungo: destinazione data con uno strano e forse inconsapevole omaggio da parte della burocrazia dell’esercito al fatto ben noto dalla storia antiquaria che voleva gli antichi Veneti, ai quali Este e Padova corrispondevano quanto ai Latini Roma ed Alba Longa, fossero abili allevatori di equi e valorosi cavalieri. Nelle antiche fotografie del ponte con, allora, le travi fresche di fucinatura si scorgeva, sulla riva destra del corso d’acqua un massiccio fabbricato dall’aspetto di tempio romanico, con il tetto a due falde e la facciata e le pareti lisce, senza angoli d’ombra e senza colonnati. Questo sorgeva sulla spianata dove oggi vi è un incrocio di vie ed un praticello con alberi e panchine. Il rustico tempio ospitava la scuola di equitazione e la spianata su cui esso campeggiava aveva ed ha ancora oggi il titolo adeguato di piazzetta dell’accademia Delia.

Era dunque a questa piazzetta che convergevo, avuto il permesso di uscire lungo le visite ai parenti. Non vi è mai molto traffico ed anche uno scolaretto vi può passeggiare senza troppo pericolo stanti le inevitabili distrazioni della mente ancora inesperta. Dalla piazzetta Delia, la via che prosegue la linea retta del ponte metallico dopo nemmeno cento metri alberga un piccolo incrocio per inoltrarsi, con una lievissima svolta a destra e dopo essersi alberata, verso i quartieri periferici e la strada per le Terme. A pochi tratti a valle della lievissima svolta un arresto con semaforo avverte che si traversa una via importante.        

È uno dei ricordi più curiosi di quelle visite quello che mi viene alla mente quando ancora passo per questo luogo. All’incrocio prima del semaforo, una villetta in stile razionale degli anni trenta stava -e sta pure oggi- di angolo fra la via che ho descritto ed una piccola trasversale, ombreggiata da alberelli di quelle prugne tonde che in Veneto son dette “amoli”, la quale trasversale sbuca in una strada deserta di traffico, separata da un filare di belle ville con giardino e piante d’alto fusto dal corso del Bacchiglione. Questa strada, parallela al corso delle acque, ha un nome altisonante di dottrine e storia: via Sant’Alberto Magno. Sulla colonnina a cardine del cancello della villetta razionale una targa incisa in ottone recitava: “Circolo del Bridge”.

Fin qui nulla di speciale: in ogni caso, giardini ville e strade di una ”temperie” italica che figurano con precisione balenante, in assenza di figure e manichini, l’atmosfera di quei quadri che appunto presero il nome di “metafisici”. Atmosfere nude, precisamente rammentabili nella loro assoluta rarefazione di impressioni. 

Il quadretto si anima se ad esso ora congiungo non la nozione matematica e forse inesistente di tempo ma la più sostanziale categoria della “stagione”. La villetta, ho già detto, era in istile razionale e però senza le pretese di chissà quale architettura da compararsi al famoso palazzo della civiltà italiana. Le sere di metà aprile, quando nel dì si possono aver inaugurate le maniche corte, e dopo cena si indossa invece un maglioncino, il circolo apriva e curava di aver già posto i tavoli al di fuori, sulla veranda d’ingresso. E incominciavano i tornei di bridge, con gli ospiti-avversari, in genere trevisani, ferraresi o rovigotti. Lo si capiva perché nel vialetto con i piccoli pruni, alti poco più di me, saltavano all’occhio le targhe forestiere delle automobili in sosta. Io che appunto avevo il permesso di passeggiare in questo ristretto perimetro di vie senza traffico, rammento perfettamente il quieto silenzio, quasi “metafisico” eppure vivo, ovvero vivo proprio perché “metafisico”, di quelle strane atmosfere. Dalla veranda che osservavo, incuriosito e fermo al cancelletto, non si udiva parola e silenzio pure era tutt’intorno. Rotto solo dalle “dichiarazioni” bisbigliate, quali “due con” o “tre senza”, che sono d’obbligo una volta che si siano distribuite le carte ai giocatori e questi le abbiano esaminate in alcuni minuti di quiete assoluta. Li intravedevo assorti e muti come chimici che attendano trepidi lo svolgersi di una reazione di laboratorio. Il giuoco inglese è silente al grado estremo per propiziare la concentrazione. Dal cancelletto si poteva perfino udire il fruscio che causava con il mischiar le carte chi era di turno per una nuova mano. Addirittura credo di aver udito lo scorrere della penna del capogiuoco sul taccuino mentre segnava i punti. 

Le partite iniziavano verso le diciotto e trenta ma con il chiaro dei dì primaverili che si allungano duravano fino alle ventuno circa. E a quell’ora si erano di già accese le lanterne sotto la pergola. 

Dal momento che le visite comportavano il restare anche per la cena, io avevo un supplemento di passeggiata dopo esser stato a tavola. E nell’oscurità delle prime ore serali era uno strano e bello spettacolo la duplice prospettiva che mi si apriva dal cancelletto d’angolo. Sotto la pergola e fra le rose, le lanterne illuminavano i tratti fini dei volti di distinti signori muti e concentrati con gli occhi fissi sul ventaglio aperto delle dodici o tredici carte in mano; sulla via, che era debolmente illuminata da un solo fanale appeso al filo a cui le fronde novelle degli alberi ostacolavano il radiare della luce, il manichino meccanico del semaforo proiettava un lampo rosso e dopo quello verde senza alcun traffico di veicoli, quasi fosse solo per un altro giuoco, altrettanto silente ma, e tale è la mia impressione, ancor più metafisico…

Poscritto 

Non mi stupisco ora di scoprire che proprio non lontano da Padova, in quel di Treviso un produttore industriale di carte da giuoco, del tipo internazionale con quadri fiori picche e cuori, e dei vari tipi regionali italiani ha festeggiato da tempo il secolo di attività… 

Poscritto secondo

Tramontana, villa, equi. E poi gli “amoli”. I primi tre termini li traggo dal vocabolarietto anteriore al 1859 trovato in Gavinana Pistoiese di cui ho raccontato nel capitolo dei castagnacci apuani. Alcune parole desuete e pure belle che vi ho imparato tornano utili per sveltire la prosa rispettando la cura descrittiva ma senza incorrere in ripetizioni, consuetudini stanche e dissonanze. Gli “amoli” sono i frutti, così ho letto su di un cartiglio presso l’orto botanico di Padova, dell’albero la cui specie è nominata Prunus myrobolanum. Essi hanno forma di piccole bacche verdi tendenti al giallo e sono piuttosto sode, selvatiche piuttosto, ma verso maggio possono farsi al gusto d’un dolce vivo accompagnato da un poco di asprigno, il quale, se le rende incommerciabili, pure non ne attenua la squisitezza spartana.

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