Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
span lang="ES-CL">Annalisa Terranova, è una giornalista professionista del Secolo d’Italia, che proviene dal Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile che negli anni 70-80 emulò, ma con una propria sbalorditiva capacità innovativa, l’attività propositiva manifestata dalla gioventù della Fiamma Tricolore che dagli anni 50 del secolo scorso tenne testa alla protervia culturale e politica dell’arco antifascista. I giovani neofascisti di allora riuscirono a penetrare profondamente nelle leve giovanili delle scuole medie e di molte università italiane, fino al 1968, con una loro indipendenza politica non sempre apprezzata dalla classe adulta del Msi e che meritò loro la nomea d’ essere i “Giamburrasca del Msi” di quell’epoca”, come racconta il ricercatore storico Antonio Carioti (autore della prefazione del nuovo libro della Terranova, del quale parleremo appresso).
Annalisa Terranova non è però solo una giornalista brillante, dotata di perspicacia nel cogliere il senso profondo della notizia, provvista di una solida cultura che le permette di inquadrare gli avvenimenti nel loro contesto diacronico; ella ha dimostrato d’essere altresì una sagace saggista politica ed una diligente ricercatrice storica; ne fanno fede libri di valore come “Le due riforme: L’Europa da Lutero al concilio di Trento” (1989), “La Riforma, come origine della modernità” (2000), “Ildegarda di Bingen: mistica, visionaria, filosofa” (2011).
Inoltre s’è cimentata, con esito assai promettente nella narrativa con un romanzo, Vittoria, che narra la storia di una ragazza romana, nata da una famiglia di genitori che non si vergognano di essere stati e di restare fascisti; e che, in sintonia con l’dna familiare, pur ancora giovanissima s’impegna a destra nei turbolenti anni Ottanta. Nelle pagine del romanzo affiorano spunti autobiografici, che vanno dai ricordi d’una infanzia felice fino al generoso impegno politico con altri giovani che, con un programma alternativo d’idee ed iniziative audaci, tentano di rompere l’assedio nemico favorito da un “nostalgismo” sentimentale, rispettabile ma politicamente improduttivo e coltivato da larghi strati delle generazioni piú anziane del Msi.
In questo suo nuovo libro libro – L’altro Msi. I leader mancati per una destra differente – Annalisa Terranova rientra nella veste delle ricercatrice storica, come già in una storia del Fronte della Gioventù dopo gli anni di piombo (“Planando sopra boschi di braccia tese”, 1996), che sbocca infine nelle vicende storiche di Alleanza Nazionale (“Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina”, 1998); e, quindi, nell’originale indagine sulle idee e le persone della destra femminile (“Camicette nere”, 2007). E lo fa, con spirito critico, riuscendo a prendere una doverosa distanza prospettica dai fatti, dai personaggi e dai tempi che indaga e racconta, anche quando si tratta di eventi ai quali Ella stessa ha in qualche modo partecipato direttamente o indirettamente
Qust’ultimo libro dedicato all’altro Msi, suscita parecchie riflessioni in un lettore che abbia militato nel Msi per oltre trentanni, e ne conosca la storia dal di dentro per esperienza personale (com’è il caso di chi scrive).
I leader di quest’altro Msi, per Annalisa Terranova sono (qui li indico secondo la successione dei capitoli del libro): Pino Romualdi, Ernesto Massi, Ernesto de Marzio, Pino Rauti, Marco Tarchi, Beppe Niccolai, Domenico Mennitti, Gianfranco Fini.
I profili di questi leader (che direi inesplorati anzichè mancati, essendo stati personaggi di prima linea nel movimento della fiamma tricolore) sono tutti interessanti, descritti con ordito preciso e sulla scorta di dati d’archivio. Si tratta di personaggi politici di rilievo che Annalisa ricolloca sul palcoscenico della storia del Msi (per largo tempo dominato esclusivamente dalla figura carismatica di Giorgio Almirante), riscattandoli da un ingiusto oblio vissuto dalle basi del popolo missino rinchiuse nel frigorifero della nostalgia.
A mio avviso il sottotitolo del libro risulta piuttosto impreciso, se si considera che almeno due delle figure ritrattate non mancarono l’obbiettivo e raggiunsero la segreteria nazionale del Msi: Pino Rauti e Gianfranco Fini, uno in concorrenza con l’altro.
Rauti, capo carismatico dell’opposizione interna dai tempi della seconda segreteria di Almirante (1969); Fini, successore designato alla guida del partito dopo Almirante, scalzato dalla massima poltrona da Rauti che nel 1990 riesce finalmente ad insediarsi al vertice del partito con il proposito di spostare verso altri lidi un Msi ancora movimento d’ordine, filoatlantico, arroccato a destra e che praticava con Gianfranco Fini un “almirantismo senza Almirante”.
Pino Rauti - definito un “Gramsci nero” in quanto sostenitore di un processo culturale a tutto campo che corroborasse l’azione politica - sognava un Msi incamminato sulla strada di un progetto innovativo “nazional-popolare”, guidato da una classe dirigente piú giovane, in grado di mettere in naftalina l’anziana nomenclatura almirantiana.
Ma il sogno rautiano di sottrarre una una buona quota di consensi ad una sinistra devitalizzata dalla droga del potere, condiviso attraverso il compromesso storico dei comunisti con la balena bianca della Dc e gli altri partitelli dell’arco costituzionale antifascista, purtroppo fallisce alla sua prima prova elettorale.
Questo generoso progetto politico e culturale, che puntava al superamento del formalismo obsoleto tra destra e sinistra e puntava alla ricerca di “nuove sintesi a forte coloritura terzomondista e antioccidentale”, s’infrange ben presto, contro l’inerzia letargica del partito riconquistato da Gianfranco Fini con l’appoggio dell’ala almirantiana e della maggioranza delle rappresentanze parlamentari, che (salvo limitate eccezioni) preoccupate del loro destino elettorale nel partito, si crogiolavano nella fierezza degli “esuli in patria”come fonte di dividendi preferenziali.
Quando Fini, allontanandosi dall‘ereditá almirantiana, usce dalla casa del padre per rinnegarlo e fonda Alleanza Nazionale, Pino Rauti si dissocia dal nuovo corso rialzando l’insegna della fiamma tricolore in una nuova formazione politica che, tuttavia, non riesce a recuperare i consensi raccolti dal vecchio Msi, e si vede ridotta ad un ruolo politico marginale.
Piú ingrato del destino di Rauti, fu quello degli altri personaggi che nel Msi pensarono ad una destra differente.
Un caso esemplare è quello di Pino Romualdi, il verace fondatore del Msi, che seppe organizzare i sopravissuti della Rsi, prima in un contenitore clandestino (i Far) per farli quindi confluire in un organismo legale, alla luce del sole, e cercare una agibilità politica di “fascisti in democrazia”.
Pino Romualdi era consapevole della necessità di non dover “non restaurare” un fascismo mussoliniano acefalo - divenuto impossibile nel contesto della respubbica antifascista succeduta al regime monarchico-fascista - ma, al tempo stesso, ben deciso a “non rinnegare”, pur senza restaurare - secondo la formula lanciata da Augusto De Marsanich nel primo congresso missino di Napoli (1948) - quanto di positivo l’era mussoliniana aveva conseguito nell’ambito legislativo, politico e sociale.
Per questa audace intuizione - che puntava ad una grande formazione politica di tutti gli italiani che non si sentivano omologati all’antifascismo tutelato dagli angloamericani sbarcati in Italia - Pino Romualdi era deputato ad essere il “capo naturale” della nuova formazione politica nata a Roma il 26 dicembre del 1946, se non fosse pesato su di lui il ruolo di vicesegretario del fascismo repubblicano svolto nella Rsi; un ruolo che gli valse nel 1948 un arresto, alcuni anni di carcere e un processo che lo sciolse da una precedente condanna a morte inflittagli da una corte d’assise straordinaria del 1945. Quell’avvenimento lo allontanerà dalla vita del Msi per alcuni anni. Al suo ritorno alla vita politica si vedrà collocato nel ruolo di un comprimario nell’alta dirigenza del Msi, fino al giorno della sua morte avvenuta a poca distanza da quella di Giorgio Almirante, accanto al quale, egli, Romualdi rappresentò sempre il convincimento politico di una grande destra moderna, la quale per Almirante risultò sempre, in pectore, una proposta strumentale, funzionale al suo suo disegno politico radicale di “alternativa al sistema.
Ciò nonostante Pino Romualdi, politico di talento, dopo aver lavorato con Michelini si rassegnò a lasciarsi oscurare dalla figura di Almirante, acccanto al quale restò fino alla fine.
Il progetto di Romualdi – teso a liberarsi di un neofascismo imbalsamato e perennemente in lutto - fu assunto con un certo successo, prima dalla segreteria di Augusto De Marsanich e quindi da Arturo Michelini (un grande leader che Annalisa Terranova sottrae ad una ingiusta dimenticanza, citandolo una dozzina di volte); il quale riuscì ad introdurre l’Msi nel gioco politico democratico - dopo la conquista in apparentamento elettorale con il Partito nazionale monarchico - dell’amminstrazione di sei grandi capoluoghi dell’Italia meridionale (Napoli, Bari, Lecce, Foggia, Salerno e Benevento) contribuendo, inoltre, con i voti determinanti dei parlamentari missini all’elezione di tre Presidenti della Repubblica (Giovanni Gronchi, Antonio Segni e Giovanni Leone).
Michelini persegue, con audace ostinazione, la politica di “grande destra” coinvolgendo abilmente in essa elementi che nella tragica guerra civile (1943-1945) avevano optato per il regno del sud come la Unione dei Combattenti Italiani (Uci) del maresciallo Messe e la maggioranza dell’elettorato monarchico, arroccato soprattutto nell’Italia meridionale; egli poneva cosí la premessa per sanare le profonde lacerazioni della guerra civile mediante la pacificazione sopprattutto tra gli italiani che - avendo militato in opposte trincee, ciascuno secondo patriottismo e buona fede - erano disposti a superare le antiche divisioni per associarsi, in libertà ed autonomia, con il proposito di rinnovare lo Stato riscattandolo dalla tirannia partitocratica mediante una democrazia partecipativa capace di conseguire la giustizia sociale mediante il superamento della lotta di classe in un clima di concordia nazionale.
Il proposito di ratificare la politica d’intervento di Michelini al congresso nazionale convocato a Genova nel luglio del 1960, con la dichiarazione dell’accettazione pubblica del metodo democratico, fu bloccato dalle violenze di piazza scatenate dal Partito comunista che chiamó all’unità antifascista, immediatamente raccolta dalla Democrazia cristiana che usò l’insorgenza di Genova per giustificare lo spostamento del suo asse politico dal centro al centro-sinistra, aprendo un ciclo politico che si concluderà solo nel 1990 con l’intervento del processo “Mani pulite”contro la corruzione politica condotto dalla magistratura politicizzata che conseguí la distruzione del Partito socialista craxiano e della Democrazia cristiana. Si chiudeva cosí il lungo ciclo politico della “prima repubblica”, aprendo la strada alla discesa in politica di Silvio Berlusconi.
Con l’eccezione di Ernesto Massi, geopolitico ed economista, che guidò la sinistra interna del Msi nel nord d’Italia fino a quando non se ne uscì (1956) per avventurarsi in un Partito Nazionale del Lavoro che non riuscì a decollare, e di Marco Tarchi, laeder giovanile degli Anni Settanta, espulso da Amirante, tutti gli altri personaggi descritti nel libro (Ernesto de Marzio, Beppe Niccolai, Domenico Mennitti), vissero un destino assai simile a quello di Romualdi.
De Marzio perseguiva nel Msi un progetto assai simile a quello di Romualdi ( purtroppo pur coltivando una politica analoga, i due non riuscirono mai a legarsi per reciproche gelosie) puntando a un processo di una revisione ideologica che aggiornasse il progetto politico del Msi portandolo dalla “alternativa al sistema” ad una “alternativa nel sistema”. De Marzio fu lo stratega della formazione della corrente interna di Democrazia nazionale con l’intenzione di assicurare al Msi il volto di una destra moderna moderata per toglierlo dall’isolamento politico e proiettarlo nuovamente verso l’esterno. Lo scontro duro con Almirante, mise la corrente di De Marzio, appoggiata dalla maggioranza dei parlamentari del Msi, particamente fuori dal partito; ed essa non ebbe altra alternativa che quella di scindersi e costituirsi in una formazione politica nuova (1977).
Partito da spiagge autoritarie, il Msi giunse gradualmente ad approcci di libertà (come affermò De Marzio in Parlamento il 7 maggio del 1975) riconoscendone la necessità concettuale fin dal 1967, nel Convegno d’Arezzo promosso da Arturo Michelini ricorrendo il quarantennio della proclamazione della Carta del Lavoro.
Toccò in quell’occasione a chi scrive abbordare l’argomento della libertà – fino ad allora abbastanza trascurato nel dibattito interno del popolo missino – e farne il tema principale della proposta politica del Msi, mantendo su un terreno di permanente attualità, che lo spazio vitale della libertà era l’unica alternativa per liberarsi dalla tirannia partitocratica e procedere verso una democrazia organica.
Ma già nel 1957, al congresso nazionale della rappresentanza universitaria (Unuri), svoltosi a Rimini, Pietro Cerullo sviluppando le tesi eleborate con Franco Petronio - allora presidente del Fronte Universitario d’Azione Nazionale, organismo parallelo del Msi - riconosceva che la seconda guerra mondiale, con il tramonto non solo di alcuni regimi, ma di un sistema culturale e geopolitico, aveva concluso un ciclo storico per cui s’imponeva un ripensamento di principi e metodi culturali e politici nei quali “l’alternativa non era più fra ordine e libertà, fra totalitarismo e democrazia, ma nella libertà e nella democrazia, fra diverse concezioni dell’uomo e della vita, quindi del bene comune”.
Dunque la prospettiva di un Msi differente convisse sempre in costante dialettica con un partito permanentemente in bilico tra la rivendicazione acritica del passato e la prospettiva di una svolta storica che fosse propedeutica alle necessarie innovazioni per il futuro.
Fu soprattutto Giuseppe Niccolai (del quale Annalisa Terranova ha scritto il miglior profilo) – definito il “fascista eretico dal cuore rossonero” – a sostenere l’urgenza di un’autocritica, sia storica che interna, per riaprire una nuova stagione di dialogo e riconnessione con la realtà nazionale, dopo l’orgoglioso isolamento imposto al partito da Almirante dopo la scissione di Democrazia nazionale.
E perchè si doveva uscire da un isolamento politico che di fatto risultò un “esilio in patria”? Perchè – affermava il “corsaro politico” Beppe Niccolai – “non possiamo crearci una Patria di sogno e rifiutare la Patria reale” quando il progetto dell’antifascismo è miseramente crollato negli Anni Ottanta. Di conseguenza – sosteneva allora Niccolai – non era più possibile essere “opposizione nel senso pregiudiziale, permanente e fisiologico” in cui ci s’era abituati ad esserlo; quindi egli proponeva un nuovo modello di partito, più snello ed agile, adeguato ai cambi della società e all’avvento delle nuove tecnologie: un partito organico per rinnovare lo Stato italiano come “Stato organico”
Niccolai era stato un almirantiano di lungo corso, gli era stato vicino come nessun altro (“Sarei ingiusto se dicessi che mi sono politicamente costruito senza di lui o contro di lui”). E quando Almirante morì lo ricordò con un memorabile scritto sulla rivista Proposta (agosto 1988) diretta Domenico Mennitti, dove non ne negava gli indubbi meriti: “seppe interpretare i vinti, trovò i temi giusti e il tono umano, familiare, usando un liguaggio scorrevole per parlare di Patria agli Italiani”. Senza di lui, riconosceva in quell’epicedio, “il Msi non avrebbe avuto possibilità di farsi ascoltare”.
Detto questo, Niccolai sempre controcorrente, osava indicarne altresì i limiti: “L’amore sfrenato che aveva per se stesso, la coscienza in lui fortemente radicata che il Msi, fosse Lui e basta, e in questa coscienza l’aver misurato i propri collaboratori per cui, nella comunità, si sono privilegiati i cortigiani anzichè i caratteri: l’avere, sempre nella consapevolezza di essere il più bravo, smussato se non ucciso il dibattito e il confronto, che sono le condizioni per formare coscienze e classi dirigenti; questa sua distanza dalla comunità, per cui la politica, anzichè costruita collegialmente, nasceva dall’inventiva, dalla bravura, dalla impareggiabile maestria propria e di nessun altro; tutto ciò lascia un’eredità pesante, e con la quale il Msi deve ancora misurarsi”.
Con questa dolorosa confessione, Beppe Niccolai, riconosceva le ragione per cui il Msi avrebbe potuto essere diverso da quello che fu durante la lunga, carismatica segreteria di Giorgio Almirante.
Un Msi differente dal partito demonizzato dagli avversari più incalliti è stato possibile, come dimostra questo libro di Annalisa Terranova e come riconobbero persino gli avversari più intelligenti, in una speciale trasmissione della Rai (Primo Piano) andata in onda il 4 dicembre 1980, con il titolo “Nero è bello”. Sembrò allora che la guerra civile che tra gli anni Settanta ed Ottanta aveva mietuto un centinaio di vittime tra giovani di opposte trincee, si fosse finalmente chiusa; e che si avviassero finalmente iniziative trasversali, per cui il Msi, soprattutto attraverso il suo Fronte della gioventù, avesse ritrovato la sua legittimità persino nella stampa dell’antifascismo moderato che aveva preso a distinguire e rispettare quando si parlava dei “neri”.
La realtà dell’altro Msi, risalito dalla ghettizzazione come una forza giovane e nuova, veniva constatata autorevolmente da Augusto del Noce, il filosofo italiano di maggior prestigio dopo Giovani Gentile. In una intervista rilasciata al Secolo d’Italia (Roma, 24 dicembre 1983) il filosofo emerito lo affermava a tutto tondo, con queste parole:
“Il Msi-Dn è una moderna forza politica di destra. Esso si è liberato dai tanti lacci che lo legavano emotivamente all’esperienza fascista e al culto mussoliniano. Indubbiamente chi parla di ‘nostalgismo’ del Msi sbaglia, e lo stato civile dell’elettorato gli da torto. Altrimenti da quanti anni già si sarebbe dovuto estinguere? I voti raccolti dal Msi non possono essere soltanto di protesta. Esso ha un suo elettorato giovanile e non legato alla passata esperienza politica italiana. Inoltre per le sue stesse radici può interpretare esperienze e istanze cattoliche. La sua politica delle riforme istituzionali indica infine che finora è l’unico partito che abbia guardato, almeno da qualche anno a questa parte, più al futuro che al passato. Esso potrebbe essere definito un moderno partito conservatore europeo”.
Anni dopo (il 2 Aprile 2009) sul settimanale Panorama il politologo Gianni Baget Bozzo- - già militante nella resistenza cattolica genovese e quindi autorevole esponente della giovane generazione democristiana fino agli Anni Sessanta – ribadiva il ruolo del Msi come forza di libertà, affermando:
“ Esso conservò il senso della nazione Italia e della patria quando gli schemi della guerra fredda imponevano la divisione tra Occidente ed Unione Sovietica. Svolse così un compito importante, e per questo, discriminato e combattuto. Ma contribuì a mantenere il fondamento culturale del Paese. Fu un elemento di differenza e quindi, appunto perchè emarginato e perseguitato, una forza obiettivamente di libertà. L’egemonia comunista della cultura italiana trovò una resistenza nella cultura di destra e nell’identità politica del partito della fiamma. Ció poteva essere riconosciuto solo se nasceva un movimento postideologico che sostituisse il concetto di avversario a quello rivoluzionario di nemico, proprio della cultura comunista. Ciò ha reso possibile che la testimonianza del Msi fosse accolta in una prospettiva in cui la nazione e il popolo si separavano dalla memoria della dittatura e del regime e si ponevano come valori puri”.
In questa coraggiosa e leale testimonianza di Baget Bozzo si riflettono propositi ed azione dei protagonisti di quell’altro Msi, descritto dall’analisi attenta di Annalisa Terranova; analisi storica dalla quale il partito della Fiamma – attraverso le parole di un avversario leale - finalmente esce vincitore di fronte alla storia.
Dal libro della Terranova emerge, infine, che il Msi - come riconosceva in effetti Gianni Baget Bozzo – cercò di lanciare un ponte agli italiani tutti, dove far transitare la lezione del passato rivisto con spirito critico, per inverarlo in un progetto di società libera quale espressione di un futuro germinato da un seme antico.
Proposito, questo, rimasto inconcluso con lo scioglimento del movimento della fiamma per dar vita ad una Alleanza Nazionale che, allontanandosi progressivamente dalla radici missine, s’inoltrò nei meandri di una liberaldemocrazia incerta e confusa che la portò - nello spazio di poco più di un decennio - ad annullarsi nell’armata Brancaleone del berlusconiano Partito della libertà.
Quel progetto - che i protagonisti dell’altro Msi cercarono di sviluppare attualizzandolo – resta (a mio avviso) tuttora vigente, nell’attesa che leve nuove ed audaci lo raccolgano e lo ravvivino per rifondare lo Stato italiano dotandolo finalmente di una democrazia compiuta, dove nazione e popolo risorgano come valori puri.
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