Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Destinato dall'Imu a diventare appartamento o ad essere abbattuto. I contadini non potranno più mantenere la bellezza antica delle costruzioni secolari come stalle, depositi
Si dice che la nuova tassa ucciderà l’agricoltura, ma non è vero. Ucciderà invece ciò di cui l’agricoltura si nutre, cioè il mondo agricolo. In cui l’umanità prevale ancora sulla fiscocrazia e sulla dittatura finanziaria. Ma questo non piace né al grande capitale internazionale, né ai suoi alleati. Di tutti i colori.
Prendo a caso, sintetizzandolo, il primo comunicato stampa che mi capita a tiro a proposito dell’IMU. È dell’Agriturist, l’associazione delle imprese agrituristiche che fa capo alla Confagricoltura. Ma con risultati identici potrei prendere quelli diffusi da tutte le altre organizzazioni del settore.
Si stima, dice, che le 20 mila aziende agrituristiche italiane, solo per le strutture destinate all’ospitalità, spenderanno di IMU circa 24 milioni di euro e che altrettanti andranno ai professionisti che dovranno effettuare l’accatastamento.
Su un fatturato stimato in 1.150 milioni di euro e un utile d’impresa di circa 280 milioni, siamo ad un taglio del reddito nell’ordine del 17%.
Siccome le aziende agrituristiche sono prima di tutto aziende agricole, esse dovranno poi altra IMU per i terreni e per i fabbricati necessari alla gestione delle coltivazioni e degli allevamenti. Così, mediamente, gli oneri da sostenere raddoppiano e in molti casi quadruplicano.
Gli edifici che non producono reddito sono a rischio di abbattimento, con ciò che ne consegue in termini di perdita di patrimonio architettonico e paesaggistico. Inoltre ci sono le imprese a rischio di chiusura, circa il 5% del totale. E dietro l’angolo si affacciano i grandi capitali, in alcuni casi di dubbia provenienza, pronti ad investire con fini speculativi. Le conseguenze sull’agricoltura e sull’assetto del territorio si annunciano dirompenti.
Si fa insomma un grande e giustificato dibattere dell’IMU applicata all’agricoltura. E da ogni dove giungono i lamenti degli agricoltori, che vedono nella nuova imposta una stangata insostenibile per un settore già in grave crisi come quello primario.
Da qui azioni di lobbing, le manifestazioni, gli appelli, le mobilitazioni. Eppure quello tra il governo da un lato, il mondo agricolo dall’altro e gli (interessatissimi) amministratori locali nel mezzo rimane un dialogo vuoto, tra sordi.
Perché si basa su un equivoco radicale. Anzi, su un elemento di ignoranza sostanziale e generalizzata che, finchè non sarà colmato (e abbiamo motivo di credere che non lo sarà), non porterà ad alcuna soluzione, se non al definitivo tramonto della ruralità. O almeno di quella che abbiamo conosciuto finora come tale.
Ruralità e non agricoltura. Perché è la seconda, e non la prima, ad essere a rischio. La ruralità è l’accezione sociale di quell’attività economica che è l’agricoltura. La sua declinazione umanistica. Sarà l’indiretto effetto sociale prodotto dall’IMU, e non quello diretto, economico, a procurare il tracollo di un sistema mantenutosi finora, con grandi sforzi, in piedi grazie al suo innato, fatalistico senso di sopravvivenza.
L’economia è da sempre, per definizione, soggetta ad assestamenti, a riconversioni, perfino a rivoluzioni che conducono per caduta naturale a una redistribuzione dei beni di produzione e a nuove dinamiche nella generazione del profitto, che è il fine ultimo dell’attività.
La ruralità non ha invece un’elasticità altrettanto ampia, né indolore. Oltre una certa soglia non si piega, si spezza.
È fatta di uomini, famiglie, persone, case, tradizioni, convenzioni, sistemi, sentimenti, progetti e perfino utopie. I grandi cambiamenti provocano lacerazioni cruente nel suo delicato e intrecciato tessuto. Resistente alle trazioni, ma non agli strappi violenti.
Proprio in ciò sta l’equivoco. Se approcciata da una prospettiva socioculturale, la questione IMU-non IMU in agricoltura cambia radicalmente senso rispetto a ciò che si legge e si sente in questi giorni.
Perde le algide sembianze fiscali, tecniche, quantitative, quasi aritmetiche, che attualmente occupano per intero il dibattito sull’argomento, e assume quelle, molto più inquietanti, del viatico finale, del passo definitivo verso un’idea strettamente finanziaria del mondo agricolo. Un mondo freddo, che non ammette promiscuità. Né la flessibilità di cui un settore viscoso come quello agricolo ha per sua natura bisogno.
Nel modello tecnico-finanziario di agricoltura a cui ci stiamo progressivamente avvicinando, e di cui l’IMU incarna l’ultimo strumento, non c’è spazio per ciò che è normale, dettato dal buon senso o dalla necessità. Non ci sono i tempi morti. Nulla può essere sospeso, messo da parte: o va o non va. La fattoria o è casa o è azienda. La stalla non può restare vuota o lavorare a mezzo servizio in attesa di tempi migliori, ma deve per forza produrre un reddito.
L’agricoltore in carne ed ossa, con la sua storia e la sua individualità, i suoi dubbi e la sua capacità di arrangiarsi, la sua pazienza e la sua duttilità non è più ammesso. Deve diventare una figura diversa, rigida, fungibile e impersonale: l’imprenditore, soggetto molto poco fisico e molto giuridico. Per il quale, se c’è redditività, coltivare un terreno o un altro dovrebbe essere indifferente, possedere un campo da due anni o da due secoli dovrebbe essere indifferente, abitare in una casa ove hanno vissuto nonni e genitori o un’altra dove non ci sono radici, ma solo licenze edilizie in regola e impianti a norma asl, dovrebbe essere indifferente.
L’agricoltore perde la sua umanità e diventa una pedina del sistema tributario. Se non rende, l’azienza va chiusa o ceduta, come si cede un’auto o si butta un paio di scarpe vecchie.
In queste condizioni, lo smembramento della ruralità è un’implicazione inevitabile.
Lo è al termine di un percorso lungo e articolato, diseguale per tempi e per luoghi, ma corale per indirizzo, in cui la naturale biodiversità dell’agricoltore si appiattisce in un’omologazione economicistica tanto spinta da appaiare l’attività a cielo aperto a quella svolta al coperto, i rapidi cicli industriali ai lenti cicli rurali, la magnifica, anche se a volte malinconica, immobilità della campagna e dei suoi elementi in un dinamismo forzato e mercantile.
La proverbiale durevolezza dei beni agricoli (dalle stalle ai trattori, dagli attrezzi alle cantine, dalle abitazioni rurali ai ricoveri per i rimorchi), a volte capaci di resistere immoti per generazioni, trascolora adesso, per un malinteso senso di necessitato ammortamento, in un’inesorabile obsolescenza formale da modello 740, dichiarata per decreto, sancita per circolare interpretativa dell’agenzia delle entrate, statuita per sentenza del Tar.
Nulla che abbia a che far con la realtà quotidiana, ma solo con la teoria elaborata da chi del mondo agricolo – anzi, rurale – non sa nulla. Compresa la maggior parte degli stessi agricoltori, spesso tanto obnubilati dalle sirene del capitale e imbevuti dalle fanfaluche della “cultura d’impresa” da fare dell’IMU una battaglia quantitativa e non qualitativa, di fisco e non d’idee, suscettibile
Essi sono i primi a non capire che, così facendo, compiono un ulteriore passo avanti verso la dissoluzione del loro mondo. Una dissoluzione che sta già vedendo rompersi la valenza tra azienda e suolo, tra uomo e terreno, nel nome di una diaspora economico-fondiaria a termine della quale l’identità del fondo e la sua storia (il suo terroir, magari?) saranno perduti per sempre, ridotti a vittime predestinate dell’economia globale.
Volete sapere come andrà a finire? Andrà a finire così. Da un lato le tasse varate dal governo dei professori ignoranti (di agricoltura) condurranno all’abbandono o alla sostanziale chiusura di decine di migliaia di aziende agricole già da tempo in difficoltà. I bassi valori fondiari caleranno ulteriormente, così il debito da essi sempre meno garantito strangolerà le imprese e si aprirà una comoda strada al “progresso” e alla “modernizzazione” del settore, leggasi via libera agli investimenti speculativi e tendenzialmente latifondistici da parte dei grandi capitali nazionali e internazionali, desiderosi di buoni affari in un comparto in cui i beni (cioè la terra) sono del resto fisicamente limitati e quindi offrono nel medio periodo sicure prospettive di rivalutazione.
Dall’altro le amministrazioni locali, miopi e assetate di denaro, agevoleranno al massimo l’introduzione della nuova tassa e la sua esazione, ben lieti di estendere l’imposizione su beni prima, se non catastalmente, non tassabili.
In ciò, quelle di sinistra saranno incoraggiate anche dai cascami del residuo abbaglio ideologico secondo il quale la polverizzazione delle, secondo loro, grandi proprietà (briciole in termini reali, ma da abbattere a priori in quanto nemiche del popolo per definizione), costrette a smembrarsi per far fronte alla crisi, non potrà che portare acqua al mulino di un’equità sociale legata a concetti redistributivi e a situazioni economiche vecchie di un secolo. Nella ganascia fiscale della grande finanza e della demagogia ideologica finirà stritolato insomma ciò che resta di quella che una volta chiamammo ruralità.
La cosa grottesca è che ad essa, fantasiosamente riverniciata sotto il nome di “sviluppo rurale”, la comunità europea riserva tuttora miliardi di euro. Mi chiedo quali artifizi burocratici verranno escogitati domani per dar soldi a chi ha comprato le aziende di chi i soldi non ce li aveva più, ma lì aveva le radici.
Intanto, prepariamo i necrologi.
Inserito da anto il 19/03/2012 14:13:23
Accidenti, sbaglio a digitare voglio Massimooooooo
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