Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Vittoria senza ali quella del Verde Alexander Van der Bellen contro il candidato del Partito della Libertà (Fpö) Norbert Hofer. I numeri (con lo scarto minimo di 31.026 voti) permettono di tirare appena un sospiro di sollievo a chi, in mezza Europa, aveva preconizzato un’Austria “bruna”, blindata nei suoi confini e nel suo egoismo. In realtà la crisi austriaca è tutt’altro che appianata dal risultato elettorale. Al contrario. La vittoria di Van der Bellen appare piuttosto come una soluzione tampone rispetto al radicalizzarsi di una crisi, che ha ragioni ben più complesse dell’ emergenza immigrati.
A questa “complessità” avrebbero dovuto guardare i vari Paesi europei, le loro istituzioni ed i mass media, chiusi invece nell’idea che il problema fosse solo l’emergere della destra nazionalista, inevitabilmente populista, xenofoba e razzista. In barba a qualsiasi principio democratico e alla non-ingerenza nei fatti interni dei singoli Paesi ci si è così lanciati nei soliti, sterili appelli contro la demagogia e la paura, alla maniera della presidente della Camera, Laura Boldrini, elogiando poi il “buon senso che ha vinto sull’ultradestra”, senza cercare però di cogliere le ragioni del voto austriaco.
La “polarizzazione” della vita politica austriaca si sviluppa certamente sull’onda della recente emergenza-immigrati, ma è, al fondo, l’espressione di un disagio ben più profondo, legato alla delegittimazione dei partiti Socialdemocratico e Popolare, ridotti a mero apparato di potere, lontani dal sentire collettivo, incapaci di cogliere le domande di un Paese storicamente stabile e stabilizzato, che ora si trova al centro di una più vasta crisi continentale, deve fare i conti con la perdita di competitività della sua economia e cerca quindi unità d’indirizzi.
La vittoria del grigio Professor Van der Bellen non sembra destinata a fare chiarezza. Intanto perché dietro il neopresidente ci sono i partiti della crisi, quelli che, al primo turno, erano stati penalizzati dall’elettorato e che, visto il risultato, continueranno nelle loro politiche di conservazione del potere.
E poi, vale per l’Austria, ma non solo per essa, c’è la sostanziale acquiescenza nei confronti dei diktat europei; c’è l’idea di un’Europa, lontana dalle sensibilità dei suoi popoli, che stenta a “ripensarsi”; ci sono le non risolte emergenze geopolitiche di un Mediterraneo in movimento verso il cuore di un’Europa che pensava di essere immune da tali problemi e che ora se li trova ai suoi confini.
Come ha scritto Claudio Magris, sul Corriere della Sera del 26 aprile, “Non è il caso di fare il processo all’Austria attuale, bensì di imparare, prima che sia troppo tardi, la lezione che essa oggi ci dà.” Il “disagio” austriaco è insomma l’ennesimo sintomo di un disagio ben più vasto che tocca ormai tutti i popoli europei. Fare finta di niente o demonizzare – come si continua a fare - per-partito-preso non serve a nulla.
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