Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Le prime reazioni allo shock della Brexit, che ha colto tutti impreparati (chissà poi perché) sono state quelle isteriche delle borse, e quelle piccate degli euro tecnocrati che hanno invitato la Gran Bretagna ad accelerare le procedure per formalizzare l’isolamento scelto nell’urna.
A seguire siamo stati travolti da elenchi più o meno realistici dei disagi (disastri per alcuni) che ci attendono quando la perfida Albione allargherà il canale della Manica; un vero e proprio diluvio di guai: dai connazionali cacciati dai posti di lavoro inglesi alla Premier League a rischio, dall’Erasmus impraticabile per gli studenti europei al ritorno dell’uso del passaporto.
Passato il primissimo sgomento in Europa hanno anche cominciato a fare due conti, rivendicando i posti di potere detenuti dagli inglesi nell’ambito della Ue, Italia vorrebbe reclamare la sede dell’autorità bancaria ora alloggiata a Londra..
Non è stata invece ancora rivendicata da nessuno la lingua ufficiale che dovrà essere parlata a Bruxelles. È una vecchia storia: tutti i documenti europei prodotti in sede di parlamento e commissioni sono scritti in inglese (scelta agevolata, lo sappiamo, dall’idioma del principale interlocutore europeo di là dall’Atlantico, ovvero gli Usa). Fino a pochi anni fa tutta la documentazione veniva anche tradotta nelle singole lingue degli aderenti all’unione, peraltro seguendo un iter complicato che obbligava comunque a passare dall’inglese, nel senso che per esempio gli interventi dei parlamentari europei, espressi nella lingua nazionale di ciascuno, venivano prima tradotti tutti in inglese, quindi passati ai traduttori delle singole lingue europee.
In seguito, complice la crisi economica che con l’allargamento a 27 introduceva una numerosità insostenibile, fu deciso che le traduzioni avvenissero solo in francese e tedesco (e poi ci si stupisce se l’Europa è a trazione franco-tedesca).
Ci fu un po’ di polemica, ma piccola e sostanzialmente contenuta, nei toni e nell’orgoglio, infondo perché battersi per l’italiano che nei secoli ha dato il maggiore contributo di cultura letteraria all’Europa? Sapevamo di contare poco e non abbiamo neppure provato a cercare di rivendicare almeno la lingua: poveri, con un debito altissimo, fragili, senza risorse economiche competitive (le uniche nelle quali abbiamo un primato universalmente riconosciuto, quelle della cultura legata al turismo, non abbiamo mai pensato di sfruttarle al meglio), abbiamo chinato la testa e rinunciato anche alla lingua, al punto che oramai il valore di un manager, di un professore di greco o di Italiano, di una maestra delle elementari si valuta sulle competenze linguistiche nelle lingua di Shakespeare.
E ora? Ora che facciamo? L’Inghilterra se va, non è più nell’Unione, legittimamente le chiediamo anzi di affrettarsi a fare gli scatoloni con la sua roba, ma manteniamo la sua lingua per parlare fra noi?
Qualche buontempone su twitter si è chiesto se a questo punto nella Ue rispolvereranno l’esperanto. Ovviamente no, ma sarebbe auspicabile che, pure mantenendo la traduzione in inglese per i contatti con gli Usa, l’Europa ritirasse fuori un po’ di orgoglio continentale e almeno restituisse ai paesi che ancora resistono al suo interno la dignità linguistica nazionale. E vista la scarsissima popolarità che l’unione gode fra i suoi aderenti, come diceva una nota pubblicità: non risolve ma aiuta.
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