Editoriale

Dalle piazze di Seattle ai salotti tv, la fine del movimento antiglobalizzazione

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

quindici anni dal drammatico G8 di Genova, che cosa ne è del movimento no-global? Che fine ha fatto il popolo di Seattle? E che ne è dei suoi capi storici? E dell’attesa rivoluzione dei proletari del sud del mondo? Rispetto al 2001, anno in cui il movimento no-global espresse  una grande capacità di mobilitazione,  ottenendo  il massimo della visibilità mass-mediatica, poco o niente pare resistere di quella stagione.

Luciano Capone, su “Il Foglio”, è arrivato a celebrarne l’autorottamazione, denunciando la scomparsa dei suoi leader: “Luca Casarini, il leader dei disobbedienti, va ogni tanto in tv o sui giornali per qualche processo pendente, ma fa una vita tranquilla. Vittorio Agnoletto è fuori dai radar. Francesco Caruso tiene un corso all’università e l’ultima volta che se n’è sentito parlare era per una colletta per una multa su un campeggio no global del 2003. Mentre Fausto Bertinotti, massima espressione politica del movimentismo, è passato dal dialogo col subcomandante Marcos dell’Ezln in Chiapas a quello con don Julián Carrón di Cl a Rimini”.

Di eredi di quella stagione non se vede, né di ideologi in grado di leggere gli attuali  contesti mondiali, oggi segnati dal nuovo internazionalismo di marca islamista, dove a prevalere non è il neoclassismo teorizzato, a suo tempo,  da  Naomi Klein, Toni Negri e Michael Hardt, ma la discriminante religiosa, l’idea che la fede possa soppiantare la politica. Prima vittima di questo nuovo contesto è stato proprio il movimento no-global, che ha così pagato le sue contraddizioni di fondo e le sue debolezze strategiche, incapace di scegliere tra la condanna dell’islam “reazionario” e le confuse ipotesi di un’alleanza impraticabile.

Il risultato – come ha notato Gilbert Achcar - è che “L’integralismo islamico è cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista”.

Il tracollo della sinistra terzomondista non esclude tuttavia una riconsiderazione degli scenari della globalizzazione, a partire proprio dalle debolezze del vecchio movimento no-global. Nella misura in cui la globalizzazione è estraniamento culturale, perdita del senso e del valore della politica, esasperato economicismo, è passando attraverso la volontà-capacità di un nuovo radicalismo culturale che si può sperare di riavviare il dibattito. Gli “argomenti” non mancano: recupero delle identità  nazionali, difesa delle tradizioni e delle tipicità locali, sviluppo organico delle economie, rifiuto dei processi di finanziarizzazione, volontà di coniugare valori etici e valori produttivi, ripresa del senso e delle ragioni della Politica. Sono “linee di vetta” che sono patrimonio alto e comune della cultura europea e che parlano di libertà piuttosto che di “liberazione”, di giustizia piuttosto che di egalitarismo, di identità piuttosto che di cosmopolitismo.

L’elemento rilevante è che, oggi, essi non sono più esclusivo retaggio di una minoranza culturale, ma emergono a livello diffuso, di ampia sensibilità popolare. 

“L’opposizione alla globalizzazione oggi è sovranista e questo va contro la lettura cosmopolitica e internazionalista prevalente per tanti anni – ha detto a “Il Foglio”  Damiano Palano, ordinario di Filosofia politica all’Università Cattolica – Già all’epoca lo schema impero-moltitudine era vago, non si capiva bene cosa fosse l’impero prima che la moltitudine, ma ora è del tutto superato dal ritorno degli stati nazionali come arena politica da cui guidare il processo di globalizzazione”.

Questa  nuova opposizione sovranista, spesso ancora confusa, attende di trovare organiche forme politiche di rappresentanza, in grado di coniugare le aspettative collettive con chiare indicazioni programmatiche ed una nuova volontà politica. A quindici anni dal G8 di Genova la sfida del cambiamento è ancora aperta e  certamente – visto  il contesto attuale – la vecchia sinistra terzomondista  non appare  in condizione  di vincerla.

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