Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
i avvicina il momento in cui noi cittadini italiani saremo chiamati ad esprimerci sulla riforma costituzionale elaborata dal governo Renzi-Boschi. Rinnovando un’atavica tradizione nazionale, l’elettorato sembra equamente diviso tra il Sì e il No. Io qui cercherò di spiegare in breve le ragioni del mio No, partendo da due premesse: in primo luogo, come la maggioranza di coloro che voteranno al referendum, non sono un giurista, e dunque le mie valutazioni non avranno un taglio specialistico, ma si inseriranno in un contesto dove peseranno tutto l’operato del governo Renzi, la nuova legge elettorale (che, ricordiamolo, è una legge ordinaria) e le situazioni di fatto determinatesi negli anni; in secondo luogo, è fin troppo ovvio che, nelle linee guida di un complesso – e complicato… - testo legislativo possa trovare elementi condivisibili anche chi, come me, ne critica l’insieme, ma noi dovremo dire “sì” o “no” all’intero pacchetto, non a questo o quel provvedimento.
Dunque, senza scendere nel dettaglio tecnico-giuridico, esaminiamo motivazioni e linee guida della riforma, ancora una volta partorita – è bene non dimenticarlo – a colpi di maggioranza e rinunciando a quello che per tutti dovrebbe essere un principio basilare in materia di Costituzione: le “regole del Gioco democratico” vanno condivise con il maggior numero possibile di attori politici e sociali, indipendentemente dagli assetti parlamentari. Nelle fasi cruciali della nostra storia recente, due sono state le vie seguite: l’istituzione di una commissione bicamerale (Bozzi nel 1983, De Mita-Jotti dieci anni dopo, D’Alema-Berlusconi nel 1997), oppure la Revisione Costituzionale, con il successivo ricorso al referendum; ed è appena il caso di ricordare come precedenti modifiche apportate alla nostra Carta costituzionale dalle maggioranze politiche del momento (governi D’Alema e Berlusconi) siano naufragate o appunto in un referendum o nella pratica quotidiana dei conflitti di competenze, con l’introduzione delle modifiche del Titolo Quinto. Quali sono allora i pilastri di questa nuova riforma? In estrema sintesi:
abolizione del bicameralismo perfetto, con l’istituzione di un Senato (ridotto a un terzo dei suoi attuali componenti) composto quasi esclusivamente da Consiglieri Regionali, privato della prerogativa di votare la fiducia ai governi e destinato a rappresentare le istanze locali (specie regionali);
modifiche all’istituzione referendaria: introduzione dei referendum propositivi e di indirizzo, abbassamento del quorum per quelli abrogativi, ove richiesti da almeno 800mila elettori e, su questa linea di maggiore partecipazione, obbligo del Parlamento di discutere leggi di iniziativa popolare proposte da almeno 150mila elettori;
riordino delle competenze, con abolizione di quelle “concorrenti”, nella prospettiva di prevenire/eliminare i rovinosi conflitti di competenze;
abolizione del CNEL.
Che cosa non mi piace di questo quadro? A prima vista, ben poco: da tempo s’invocano la riduzione dei rappresentanti parlamentari (e dei relativi costi), una maggiore velocità nel processo legislativo, la rimozione di Enti inutili e dei conflitti di competenza fra organismi istituzionali. S’invocano anche, a dire il vero, una maggiore stabilità dei governi e una loro più spiccata capacità decisionale, magari riducendo al minimo il trasformismo e il potere di ricatto delle “piccole” formazioni politiche; oppure, tanto per continuare a esemplificare, il ridimensionamento dei poteri della burocrazia, sia nazionale che locale, per tacere della revisione di quelli attribuiti alla Magistratura (a proposito dell’argomento “siamo quasi gli unici a mantenere un sistema bicamerale paritario”, non bisognerebbe dimenticare che siamo quasi gli unici a non avere una distinzione delle carriere dei magistrati fra inquirenti e giudicanti…). E gran parte di questi esempi attengono a materie costituzionali…
Si aggiunga che il nuovo Senato, nella formulazione dell’art. 70, insieme con le Regioni e le Province autonome, nelle materie di rispettiva competenza, parteciperà alla formazione ed attuazione delle leggi , in linea con le politiche dell’Unione Europea; a tali Enti sarà dunque demandato il controllo dell’effettiva applicazione delle normative comunitarie. Una simile più stretta integrazione nell’organismo europeo – di cui in tanti lamentiamo la connotazione burocratica e la dipendenza da poteri forti di natura finanziaria, nonché la scarsa democraticità, nel senso che le istituzioni collegiali elettive non hanno effettivi poteri – costituisce, per me, un ulteriore motivo di perplessità, che mi farà votare NO. Il problema centrale però è che le leggi – e le idee – camminano sulle gambe degli uomini e vengono assoggettate alle loro libere e molteplici interpretazioni, rispondendo comunque alla storia secolare ed ai caratteri di un popolo. Ora, la scelta di delegare – devolvere – a poteri locali materie importanti quali la sanità, lo sviluppo economico, il turismo e così via, si è rivelata poco felice fin dalla riforma del 1970, che istituì le Regioni a statuto ordinario, divenute ben presto centri di (cattiva) spesa.
Qui occorre fare l’amara premessa che in alcune di quelle regioni l’effettiva sovranità dello Stato è messa in discussione dall’esistenza della criminalità organizzata, che condiziona (e a volte vi infiltra i suoi uomini) la pubblica amministrazione, le imprese, gli stessi cittadini. Come se non bastasse, le cronache recenti hanno gettato ampio discredito proprio su quella classe di consiglieri regionali – di tutte le parti politiche – che ora si vorrebbero promuovere al Senato. E sorvoliamo sulla cancrena dei cacicchi locali, ormai da tempo fuori dal controllo delle segreterie dei rispettivi partiti (a proposito di Costituzione: a quando l’attuazione degli articoli riguardanti i partiti e i sindacati? L’auspicabile regolamentazione, quella che, fra l’altro, dovrebbe prevedere democrazia interna e trasparenza dei bilanci, è di là da venire, forse proprio perché metterebbe in difficoltà tutte le formazioni, con in testa il Movimento 5 Stelle. Per inciso: a carico dei partiti, inserirei l’obbligatorietà di una Scuola di formazione, come titolo di accesso all’attività politica e amministrativa).
Si dirà: non è giusto giudicare una riforma partendo da patologie socio-politiche e da rischi di fallimento; eppure, proprio la preoccupazione di prevenire deviazioni e pericoli fu ben presente nei Padri Costituenti, i quali, ad esempio, per scongiurare pericoli di ricadute autoritarie, connotarono la Repubblica in senso parlamentare e limitarono i poteri sia del Suo Presidente che del Capo del Governo: sapevano infatti quanto il nostro popolo sia incline ad osannare l’”uomo forte”…
Ma veniamo all’argomento “abbiamo bisogno di velocizzare l’iter legislativo”. Io credo che basterebbe spulciare le cronache, sia lontane che vicine, per rendersi conto che, ad onta del sistema bicamerale paritario, quando c’è stata la volontà politica di varare una legge, lo si è fatto, anche in tempi relativamente brevi. E poi: siamo sicuri che il problema Italia consista nell’insufficiente produzione di leggi? Ma non ne variamo anzi troppe? E alla maggiore snellezza dell’iter, non servirebbe forse una decisa sfoltita e rivisitazione dei regolamenti parlamentari? E quanto ai costi, la pur invocata riduzione dei parlamentari crediamo inciderebbe davvero poco sui nostri disastrati bilanci, oltretutto gravati in misura significativa dal regime di privilegio – anche previdenziale – in vigore non solo per i parlamentari, ma per la nutrita schiera di funzionari, commessi e addetti vari sia della Camera che del Senato.
Ricadute politiche. Come si è già visto con la finta abolizione delle Province, anche il ridimensionamento del Senato proverebbe i cittadini della possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti; possibilità ulteriormente mortificata dalla prassi delle segreterie di partito – e dalla legge elettorale denominata “italicum” - ancora e sempre decisiva nella formazione delle liste elettorali, con l’aggravante, per la citata legge, di uno spropositato premio di maggioranza, destinato, unitamente all’ormai consolidato alto tasso di astensioni, a consegnare il paese ad una minoranza pronta a travestirsi da maggioranza. E qui, nessuna garanzia ci viene dalle tanto decantate riforme. D’altra parte, qualcuno sta cercando, da anni, di abituarci a governi non eletti…
Si dice: se queste riforme non passeranno, l’Italia piomberà nel caos (senza contare che l’imminente pronuncia della Consulta sulla legittimità costituzionale dell’Italicum potrebbe compromettere in partenza parti fondamentali della riforma in questione). Lo dice il Governo, ma lo affermano anche i famosi “poteri forti” europei, stampa, lobbies finanziarie, istituzioni dell’Unione. Esattamente come predicavano per la brexit (o come minacciava Nenni, in vista del referendum “Repubblica/monarchia). Le recenti uscite dell’ambasciatore statunitense a Roma, delle agenzie di rating, gli stessi auspici (in sé legittimi, ma rivelatori) di svariate autorità europee la dicono lunga, fra l’altro, in termini di attacco alla sovranità del popolo italiano.
Nessuno di questi signori spiega perché, così come nessuno ha spiegato come e quanto inciderebbero in positivo sulla nostra economia il ridimensionamento del Senato o l’abolizione del CNEL. O sulla riduzione del mostruoso debito pubblico. O sulla scandalosa lunghezza – e incertezza – dei processi civili. O sulla dipendenza energetica dell’Italia. O sulla incapacità di governare i flussi migratori. O sulla persistente disoccupazione, specie giovanile. O sulla crescente sofferenza delle famiglie. O sull’incapacità di gestire il territorio ed il patrimonio edilizio, specie pubblico. E vogliamo parlare di Banche? Di scuola? Di politica industriale? Tutto si risolverà con la bacchetta magica dei rinnovati e virtuosi (?) rapporti Stato/Regioni, oltreché, naturalmente, con la fine del bicameralismo paritario?
E allora? Arroccarsi nella torre del diniego di ogni cambiamento? Certo che no. Cambiare va bene, non va bene invece un cambiamento qualsiasi. Abbiamo aspettato per decenni: perché non aspettare ancora – operosamente – e fare le cose per bene, ad esempio, organizzando elezioni su base proporzionale, finalizzate alla composizione di una Camera costituente e rappresentativa di tutte le famiglie politiche, di tutte le energie del paese? Senza contare che forse uno choc – lo choc di un chiaro rigetto dell’operato del governo - potrebbe provocare una salutare scossa alla nostra società, politica e civile…
E ancora: questo governo gode di una maggioranza tanto stabile (si vedano gli innumerevoli voti di fiducia ottenuti) da esser riuscito a varare un pacchetto di riforme costituzionali e diverse riforme ordinarie, tutte con la pretesa di “salvare l’Italia” e tutte, ahimé, fallite in un breve arco di tempo (dagli 80 euro al jobs act, impotente di fronte alla disoccupazione). Perché allora questo governo non prova ad affrontare operativamente qualcuno dei problemi sopra elencati a puro titolo di esempio?
Il timore – fondato – è che si miri a prendere tempo, in attesa di chissà cosa, mentre la Casa comune, già lesionata da tempo, rischia di crollarci addosso. E se non ci salveranno le vecchie zie di longanesiana memoria, non ci riuscirà nemmeno una riforma scritta in un linguaggio astruso e con uno sguardo servile all’Europa dei burocrati e dei banchieri.
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