Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
ezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti suggerisce una serie di considerazioni utili per valutare la situazione politica e sociale in Europa e in Italia. E’ in atto un movimento, sotterraneo fino a poco tempo fa, e ora visibile in superficie. Il termine usato per definirlo è “populismo”, che, come tutte le sintesi, fornisce un’immagine folgorante del fenomeno, ma non può esaurirne la portata, spiegarne le cause, indicarne la direzione, individuarne l’eterogeneità delle componenti.
Così, l’euforia degli schieramenti politici “di destra” nel nostro continente – si pensi alle fulminee congratulazioni al vincitore da parte della francese Le Pen e dell’ungherese Orban – appare giustificata solo in parte. Gli Stati Uniti non sono la Francia o l’Ungheria e nemmeno l’Italia, per ragioni talmente evidenti e note che non è il caso di ripeterle qui.
Tuttavia, non è privo d’interesse ricordare alcuni tratti comuni di questo “movimento”, di qua e di là dell’Atlantico. Intanto, gli sconfitti americani hanno corrispondenti in Europa nelle classi dirigenti politiche, industriali, finanziarie e mediatiche, insomma in quell’establishment custode di un potere che si vuole irresponsabile e senza alternative e capace, fin qui, di imporre comportamenti e persino un linguaggio basato sul politically correct. Sconfitti che, blanditi da sondaggisti sempre più screditati – anche perché troppo attenti agli interessi e ai desideri dei committenti - hanno rimosso e ignorato i motivi dello scontento diffuso dapprima nella classe operaia e poi, via via che avanzavano gli effetti della globalizzazione, fra le classi medie, destabilizzate nella loro identità, ancor prima che nel loro potere di acquisto e nel loro ruolo sociale.
E’ questa, ad esempio, l’analisi formulata da Alain de Benoist, il quale, fra l’altro, su questa linea che scompagina gli usurati schieramenti destra/sinistra, ritiene che fra le cause della vittoria di Trump vi sia lo spostamento di suffragi su quest’ultimo dai sostenitori di Bernie Sanders e, tanto per superare le categorie marxiane della lotta di classe, annovera tra i king makers Julien Assange, con il suo lavorio informatico volto a smascherare le magagne della Clinton Segretaria di Stato e candidata democratica.
Di passata, spendiamo qualche parola sulla miseria di tanti nostri commentatori, infeudati agli attuali detentori di tutti i poteri e accomunati da sentimenti che sarebbe poco definire meschini: disprezzo per le decisioni dei popoli, dettate, secondo loro, dalla pancia e mai dal cuore e dalla testa; livore, sarcasmo e sussiegosa diffidenza verso i vincitori sgraditi. Sono gli stessi che s’impancano a maestrini, quando si tratta di definire, ad esempio, i lineamenti di una “destra presentabile” (per loro), e cioè liberale e moderata, o quando si tratta di fustigare gli elettori responsabili di un esito elettorale deludente.
Certo, gli Stati Uniti non sono l’Europa, nel bene e nel male. Laggiù hanno l’orgoglio dell’identità nazionale e del loro ruolo nel mondo, i loro leader invocano e ringraziano Dio in tutte le occasioni ufficiali e nelle stesse onorano la famiglia, sia pure con l’ipocrisia di una società all’avanguardia prima nel divorzio e ora nelle unioni civili; laggiù non pretendono l’assistenza della mano pubblica e credono nella libera competizione e nel merito, anche per la forte impronta protestante che vede nei diseredati gli esclusi dalla grazia divina e dunque i colpevoli senza colpe; amano le armi, perché nella ricetta del “meno Stato possibile” rientra anche la difesa personale diretta, e così via.
Tuttavia, l’elezione di Trump ha prodotto l’effetto di un nuovo campanello d’allarme, dopo la Brexit, per gli attuali dirigenti europei. L’insofferenza verso l’establishment potrebbe portare a breve ulteriori sommovimenti, a partire dalle elezioni presidenziali in Austria e dal referendum per le riforme costituzionali in Italia. In quest’ultimo caso, si dirà: ma come, non si va nella direzione del cambiamento, varando modifiche profonde alla Carta fondativa della Repubblica? Il fatto è che non tutti i cambiamenti riscuotono il consenso dei popoli, e quello prospettato dalla riforma Renzi-Boschi sembra suscitare più diffidenze e rigetti che non valutazioni positive (ne abbiamo scritto su queste colonne, e non è il caso di ripetersi).
Vi è, infine, un altro aspetto interessante nel pacchetto di suggestioni che hanno portato alla vittoria Donald Trump e che indubbiamente dovrà essere confermato dapprima in occasione delle nomine fondamentali e poi alla luce dei provvedimenti concreti: la sua visione rivoluzionaria – per l’America – dei rapporti con la Russia e la sua diffidenza, se non ostilità, nei confronti delle Organizzazioni internazionali, quali l’ONU, la NATO e la stessa Unione Europea. Tutto questo, senza dimenticare che l’orgoglio identitario – che sembra mancare non solo a noi europei, ma anche a noi italiani – quell’orgoglio sintetizzato nello slogan “America first”, significa ovviamente Europa solo dopo.
Fra non molto ci saranno elezioni politiche in Francia e in Germania: gli accadimenti di questi mesi, innescati dalla cosiddetta “crisi” economica e da quella dei migranti, autorizzano aspettative di cambiamenti effettivi e profondi, anche se, per limitarci alla Francia, il combinato disposto di una legge elettorale architettata ad hoc e un certo diffuso timore dei mutamenti radicali, potrebbe ancora una volta deludere quanti sperano in una vittoria del Front National.
E l’Italia? Non è azzardato pensare che a beneficiare di quel “movimento” di cui parlavamo sia il movimento Cinque Stelle, di cui non ci preoccupano tanto l’insipienza amministrativa fin qui dimostrata, soprattutto a Roma, quanto il suo silenzio su problemi cruciali come i rapporti con l’Unione europea e la sua moneta, la questione fiscale, il governo dei flussi migratori. L’osannata onestà, il principio - smentito dalla pratica quotidiana della politica - “uno vale uno”, la latitanza di una visione identitaria e del ruolo dell’Italia nel concerto delle Nazioni ci sembrano motivi sufficienti di scetticismo. Altri soggetti politici, collocabili a destra o a sinistra dello schieramento politico, vantano consensi traducibili in numeri sconfortanti. Ma non è detto che all’orizzonte non appaia un leader inatteso come Trump, capace di coagulare e incanalare i consensi verso un futuro comune migliore.
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