Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
foto Pietro Paolini
“Puccini non appartiene ai grandi compositori, ma nei suoi limiti, dei quali egli era peraltro perfettamente consapevole, lavorò onorevolmente e con assoluta padronanza della tecnica”. Un giudizio, questo, che oggi fa sobbalzare qualsiasi lettore fornito di un minimo di cultura musicale, anche perché proviene da un manuale di storia del melodramma per molti versi onesto, anche se certo oggi superato: quello di Donald J. Grout. Lo studioso americano non era peraltro il solo ad avere simili giudizi, o meglio pregiudizi, sul grande musicista lucchese di cui il teatro dell’Opera di Firenze propone uno dei titoli più amati: la Bohème, che terrà il palcoscenico per sette recite, dal 17 al 27 novembre.
Eppure fu proprio questo melodramma, paradossalmente, che forse più di ogni altro contribuì a creare al compositore la fama di musicista delle sartine o altre malevole stupidaggini. Non pochi poi furono i critici che, quando l’opera fu rappresentata per la prima volta a Torino nel gennaio 1896, la stroncarono impietosamente, preconizzandole addirittura una effimera durata sui palcoscenici. “La Bohème, come non lascia grande impressione sull'animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico, e sarà bene se l'autore, considerandola come l'errore di un momento, proseguirà gagliardamente la strada buona e si persuaderà che questo è stato un breve traviamento del cammino dell'arte” pontificò allora il noto giornalista torinese Carlo Bersezio, critico della Stampa. E non fu il solo.
O insensata stoltezza dei critici, verrebbe da dire parafrasando Dante! Almeno dalla metà del secolo scorso, questi giudizi sono stati progressivamente ribaltati . Eppure in effetti, quella prima rappresentazione, diretta da un giovane Arturo Toscanini con cui Puccini ebbe sempre un rapporto tormentato, non ebbe un grande impatto anche sul pubblico. Forse anche per il fatto che poche settimane prima, sempre a Torino, Toscanini aveva diretto la prima italiana del Crepuscolo degli Dei, opera splendida ma monumentale, ben diversa dallo stile breve e conciso di Bohème che tra l’altro, a differenza di Manon, non presenta richiami o echi wagneriani. Bisognerà aspettare la rappresentazione di aprile a Palermo perché l’opera iniziasse il suo “decollo”. E a 120 anni dalla sua nascita, contrariamente alle previsioni dei soloni menagramo, non solo gode di ottima salute, ma è sicuramente uno dei capolavori più popolari di tutto il repertorio operistico; una popolarità che nulla toglie alla raffinatezza e al genio che innerva ogni singola nota di questo lavoro straordinario.
Quello che colpisce in quest’opera è anzitutto uno straordinario “gioco” di equilibri e contrasti. Il primo e l’ultimo atto iniziano entrambi in modo scherzoso:il primo si conclude poi in modo serio, il quarto in maniera tragica. Il secondo atto, con la sua festosa atmosfera scapigliata, da l’idea di uno … scherzo agitato, mentre il quarto, litigio tra Rodolfo e Musetta a parte, appare come un andante dolce e malinconico.
E’ sicuramente difficile riassumere la complessità e la vivacità di un’opera straordinaria, che solo una incredibile miopia e superficialità ha potuto per moto tempo bollare come sdolcinata e patetica. Punto di forza è sicuramente l’ottimo libretto, dalla storia quanto mai complicata e … turbolenta. Alle radici di Boheme c’è infatti un vero e propri “duello musicale”, tra due artisti che, se in precedenza erano stati amici, da allora si detestarono cordialmente: il “bisbestia” , così pare che Puccini appellasse Ruggero Leoncavallo, autore dei Pagliacci e suo rivale in … Bohème. All’inizio del 1893 infatti i due compositori lavorano intorno al medesimo soggetto: scènes de la vie de Bohème, romanzo di ispirazione autobiografica di Henri Murger (1822-1861) pubblicato a puntate sul Corsaire Satan tra il 1845 e il 1849, poi raccolto in volume ed anche adattato per le scene nel 1849. Si tratta della vicenda di un gruppo di artisti “da soffitta”, scanzonati e vivaci, ma anche abbastanza scalcinati. Genio, sregolatezza e povertà, insomma, tanto che con la Bohème fu identificata anche la Scapigliatura italiana, che era davvero geniale e sregolata. Comunque sia, i due musicisti avrebbero appreso per caso, incontrandosi in un caffè milanese,di questa “coincidenza artistica”. Ne nacque una polemica alimentata anche dalla stampa; Leoncavallo accuserà Puccini di slealtà e malafede e la frattura fra i due non si risanerà più: “ Egli musichi, io musicherò. Il pubblico giudicherà”, concluderà filosoficamente Puccini. E il pubblico giudicò: l’opera di Leoncavallo, su libretto proprio, andò in scena alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Ebbe un destino esattamente opposto a quella di Puccini: bene accolta alla prima, cadde poi nel dimenticatoio, con buona pace di Gustav Mahler che spregiava l’opera pucciniana preferendole l’altra, che oggi viene ripresa di rado e malgrado alcune pagine indubbiamente gradevoli non regge decisamente il confronto.
Con quest’opera, anche Puccini sperimenta il “quotidiano” sulla scena; ma è un quotidiano molto diverso da quello verista. Non per nulla, Puccini viene in questo stesso periodo attratto dalla Lupa di Verga e ha persino un incontro con lo scrittore siciliano; ma poi scarta il soggetto e torna a Murger. “ Quello della Bohème è un quotidiano che non ha nulla a che spartire col naturalismo di Verga o di Zola. Non descrive infatti situazioni sociali sordide e degradate, non inscena malavitosi e proprio (anche) per questo può diventare metafora di un tema universale e fuori del tempo come la giovinezza (…) Ecco perché da più di un secolo l’opera pucciniana continua ad attrarre, coinvolgere e commuovere il pubblico dei palcoscenici di tutto il mondo”, scrive benissimo Alberto Cantù.[1]
Merito sicuramente anche del libretto, primo frutto dell’accoppiata Luigi Illica e Giuseppe Giacosa: vulcanico e fantasioso il primo, particolarmente versato nel lavoro di riduzione e sceneggiatura, ma non sempre felice nella versificazione (i famigerati “illicasillabi”); più attento al labor limae Giacosa, che era tra l’altro un importante commediografo di successo nell’età umbertina, particolarmente sensibile alla psicologia femminile e ai ritratti d’ambiente borghese. E i due poeti insieme riescono a preparare per Puccini, che vigila e interviene costantemente nella loro attività, una eccellente fusione di tragedia e commedia: “vita gaia e terribile”, appunto,come riporta una didascalia del testo. Niente di più remoto dal naturalismo rusticano fatto di sangue, onore e coltelli, distacco che riguarda anche l’espressione musicale: un canto che non si esprime con una vocalità prorompente e sanguigna (che comunque, soprattutto nelle opere migliori dei cosiddetti veristi, non manca del suo fascino, ma è altra cosa), ma con un fraseggio morbido e disteso e una orchestrazione sempre raffinata. Non per nulla è stato fatto il nome del Falstaff come punto di riferimento artistico: rimandi che possono trovarsi nel dinamismo dell’azione, nell’alternarsi di comico e sentimentale, “nell’ imprimere alla più piccola cellula di parlato rimandi melodici allargando la lezione dell’ultimo Verdi.”[2]
Altra caratteristica singolare di quest’opera sta senz’altro nei personaggi: tutti sono simpatici, mentre la protagonista femminile, Mimì, ha veramente un qualcosa di luminoso: “ Mimì assunse il valore di simbolo di un’ultima porzione di umanità, ancora disponibile per la realizzazione di un ultimo desiderio di bellezza, balsamo e consolazione ideale delle giornaliere inquietudini”.[3] Si prenda ad esempio la famosissima aria del primo quadro Mi chiamano Mimì : un libero rondò nel quale il compositore, con acuta finezza psicologica, mette in risalto diversi aspetti del carattere della giovane, dalla semplicità infantile alla delicata vena romantica, senza evitare la “prosaicità” della vita quotidiana.[4]
C’è dunque grande attesa per questo appuntamento fiorentino: la prima rappresentazione di domani (giovedì 17 novembre) ha già tempo registrato il tutto esaurito. La regia, di Lorenzo Mariani con scene e costumi di William Orlandi è la ripresa di un allestimento del Teatro Comunale di Bologna, ormai collaudato e di successo: una scena semifissa con un'imponente impalcatura di tipo edile in metallo con scalette di accesso, su una grande piattaforma girevole che permette un rapido cambiamento tra i quattro quadri; addio comignoli che spuntano nei cieli bigi, ma in compenso la scena del Caffè Momus nel secondo quadro guadagna in vivacità e scorrevolezza.
Sul podio un prestigioso veterano della bacchetta, il maestro Daniel Oren, che però nelle ultime due repliche viene sostituito da Francesco Ivan Ciampa; orchestra , coro e coro delle voci bianche del Maggio Musicale Fiorentino. Per i ruoli vocali, ben tre tenori si alternato nel ruolo di Rodolfo: Fabio Sartori , Leonardo Caimi (19, 22) e Giulio Pelligra (26); in quello di Mimì Jessica Nuccio e Valeria Sepe (19, 22, 26; ). Marcello è interpretato da Simone Piazzola e da Julian Kim ( 19,22,26); Musetta da Alessandra Marianelli e Laura Tatulescu (19, 22, 23, 26), mentre il filosofo Colline è Gianluca Buratto.
Date e orari
Gio 17 novembre, ore 20:00
Sab 19 novembre, ore 20:00
Dom 20 novembre, ore 15:30
Mar 22 novembre, ore 20:00
Mer 23 novembre, ore 20:00
Sab 26 novembre, ore 20:00
Dom 27 novembre, ore 15:30La trama dell’opera:[5]
Quadro I
In soffitta
La vigilia di Natale. Il pittore Marcello, che sta dipingendo un Mar Rosso, e
il poeta Rodolfo tentando di scaldarsi con la fiamma di un caminetto che
alimentano di volta in volta col legno di una sedia e la carta di un poema
scritto da quest'ultimo. Giunge il filosofo Colline, che si unisce agli amici.
Infine il musicista Schaunard entra trionfante con un cesto pieno di cibo e la
notizia di aver finalmente guadagnato qualche soldo. I festeggiamenti sono
interrotti dall'inaspettata visita di Benoit, il padrone di casa venuto a
reclamare l'affitto. È quasi sera e i quattro bohémiennes decidono di andare al
caffè di Momus. Rodolfo si attarda un po' in casa, promettendo di raggiungerli
appena finito l'articolo di fondo per il giornale Il Castoro. Rimasto solo,
Rodolfo sente bussare alla porta. Una voce femminile chiede di poter entrare. È
Mimi, giovine vicina di casa: le si è spento il lume e cerca una candela per
poterlo riaccendere. Una volta riacceso il lume, la ragazza si sente male: è il
primo sintomo della tisi. Quindi fa per andarsene, quando si accorge di aver
perso la chiave della stanza. Inginocchiati sul pavimento, al buio, i due
iniziano a cercarla. Rodolfo la trova per primo e la nasconde in una tasca.
Quando la sua mano incontra quella di Mimi, il poeta dichiara il suo amore e
chiede alla fanciulla di parlargli di lei. Mimì gli confida di vive sola,
facendo fiori finti.Gli amici dalla strada vengono a reclamare Rodolfo, Mimi
accetta di accompagnarlo, i due lasciano insieme la soffitta alla volta del
caffè di Momus.
Quadro II
Al quartiere latino
Il caffé Momus. Rodolfo e Mimi raggiungono gli altri bohémiennes. Il poeta presenta
la nuova arrivata agli amici e le regala una cuffietta rosa. Al caffè si
presenta anche Musetta, una vecchia fiamma di Marcello, che lo ha lasciato per
tentare nuove avventure e che si accompagna al vecchio Alcindoro. Riconosciuto
Marcello, Musetta fa di tutto per attirare la sua attenzione, esibendosi,
facendo scenate e infine cogliendo al volo un pretesto per scoprirsi la
caviglia. Marcello non può resisterle e i due amanti fuggono insieme agli altri
amici, lasciando al ricco amante di Musetta il conto da pagare.
Quadro III
La Barriera d'Enfer
Febbraio. Neve dappertutto. La vita in comune si è rivelata ben presto
impossibile: le scene di gelosia fra Marcello e Musetta sono ormai continue,
come pure i litigi e le incomprensioni fra Rodolfo e Mimì, accusata di
leggerezza e di infedeltà. Per di più Rodolfo ha capito che Mimì è gravemente
malata e che la vita nella soffitta potrebbe pregiudicarne ancor più la salute;
i due vorrebbero separarsi, ma lo struggente rimpianto delle ore felici
trascorse insieme li spinge a rinviare l'addio alla primavera. Mentre Marcello
e Musetta si separano dopo una furiosa litigata.
Quadro IV
In soffitta
Ormai separati da Musetta e Mimì, Marcello e Rodolfo si confidano le pene
d'amore. Quando Colline e Schaunard li raggiungono, le battute e i giochi dei
quattro bohémiennes servono solo a mascherare la loro disillusione.
All'improvviso sopraggiunge Musetta, che accompagna Mimì, ormai prossima alla
fine, in quella soffitta che vide il suo primo incontro con Rodolfo. Qui,
ricordando con infinita tenerezza i giorni del loro amore, Mimì si spegne
dolcemente circondata dal calore degli amici (che le donano un manicotto e le
offrono un cordiale) e dell'amato Rodolfo. Apparentemente assopita,
inizialmente nessuno si avvede della sua morte. Il primo ad accorgersene è
Schaunard, che lo confida a Marcello. Nell'osservare gli sguardi e i movimenti
degli amici, Rodolfo si rende conto che è finita.
Inserito da Livia Bonato il 17/11/2016 13:33:30
Ma Melani dove e'finito? Scrivete sempre le stesse cavolate. Non vi leggiamo più'AC
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