Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
quo;è un sesto quesito nascosto tra le righe del “Referendum costituzionale”, un quesito che compendia gli altri cinque, stampati sulla scheda: “Siete disposti a cedere la vostra sovranità ?”
La domanda è tutt’altro che fantasiosa. Sgombrato il campo dalla “pubblicità ingannevole”, diffusa, a piene mani, dai paladini del sì, l’essenza del referendum – a ben leggere – è tutta interna al tema della sovranità, diversamente declinata.
Intanto c’è la sovranità politica, quella che – secondo la Costituzione – appartiene (apparterebbe?) al popolo. Su questo versante la riforma voluta da Matteo Renzi va giù dura. Il Senato non sarà eletto direttamente dai cittadini (in attesa che una legge ordinaria determini le modalità di scelta da parte delle Regioni e delle “aree vaste”). Stesso discorso per le ex province, nominalmente abolite, ma sostituite dalle aree metropolitane, rette da consigli metropolitani eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni delle stesse aree. Compendio di questa spogliazione della sovranità popolare è la legge elettorale costruita intorno ad un premio di maggioranza (340 seggi su 630) alla lista che ottiene più del 40 per cento al primo turno (o che vince al ballottaggio). Per non parlare del nuovo centralismo burocratico, nascosto nella “revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, con il quale le più importanti decisioni che riguardano la vita dei cittadini e le esigenze dei territori saranno prese da schiere di “tecnici” ministeriali privi della conoscenza dei problemi locali, in spregio ai valori della sussidiarietà e della partecipazione che hanno sempre segnato lo sviluppo nazionale.
In linea con questi orientamenti c’è la spogliazione della sovranità sociale, realizzata con la soppressione del CNEL. L’abolizione del Consiglio non può essere giustificata da una generica politica delle semplificazioni e dei risparmi. I circa venti milioni di Euro spesi dallo Stato per mantenere in vita il CNEL (tra costo della sede, personale, consiglieri e presidente) sono ben poca cosa, di fronte ai buchi e agli sprechi del bilancio pubblico. La questione – diciamolo chiaramente – è “di sostanza”. Con l’eliminazione di uno degli “organi ausiliari”, previsti dalla Costituzione, si vuole porre fine all’ultimo, debole tentativo di dare spazio e voce alla rappresentanza per categorie e agli interessi organizzati della società civile (dei 64 consiglieri – non dimentichiamolo - 10 sono “qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica"; 48 sono "rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato", di cui: 22 rappresentanti dei lavoratori dipendenti, tra i quali 3 "rappresentano i dirigenti e i quadri pubblici e privati"; 9 rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni; 17 rappresentanti delle imprese; 6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato). E’ il Paese Reale che trova e potrebbe ancor più trovare nel CNEL un utile strumento di rappresentanza/mediazione, finalmente fondato sulle competenze del Corpo Sociale della Nazione. Perché privarsene ? Per risparmiare qualche decina di milioni ? Una ben magra prospettiva, laddove il Consiglio dovrebbe rappresentare quello spazio istituzionale finalizzato alla condivisione e al dialogo sociale, oggi “ideologicamente” depotenziati dal governo in carica.
Last but not least, c’è la sovranità nazionale. Mai come in questa occasione essa è stata messa in discussione, direttamente ed indirettamente, dai potentati esteri. Ha iniziato, nel settembre scorso, l’ambasciatore Usa a Roma, John R. Phillips, che – senza mezzi termini ed andando ben oltre il suo ruolo di “rappresentante” in Italia di uno Stato estero – ha lanciato l’endorsement a favore del sì (“Il sì sarebbe una speranza per l’Italia, mentre se vincesse il no sarebbe un passo indietro”) , paventando, in caso di vittoria del no, una riduzione degli investimenti americani nel nostro Paese. Non è stato da meno lo stesso Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che, in occasione della visita di Renzi alla Casa Bianca, è arrivato a dichiarare: “Il sì può aiutare l’Italia”. “Matteo ha fatto riforme giuste e coraggiose”. Per concludere addirittura: “Non voglio interferire, ma tifo Renzi”. Ecco poi arrivare l'agenzia di rating Fitch, che per bocca del suo managing director Edward Parker dichiara : "Un’ eventuale vittoria del no sarebbe negativa per l'economia del Paese e per il suo merito di credito". Via via gli “altri”: banchieri, Banca centrale europea con Draghi, grandi agenzie finanziarie, Barclays, Morgan Stanley, Credit Suisse, Stadard&Poor’s, Deutsche Bank. Il 98% dei manager interpellati da Bloomberg si è dichiarato a favore del sì. Parola d’ordine la “volatilità del mercato” l’ incertezza, cioè, sui valori del prezzo di un bene o sui movimenti finanziari, l’andamento delle Borse, la risalita dello spread. Giusto per tranquillizzare gli investitori, da parte sua, l’agenzia finanziaria Morgan Stanley, in caso di vittoria del no è arrivata a mettere in dubbio la stessa ricapitalizzazione di Monte dei Paschi. E poi la “grande” stampa internazionale, con Wall Street Journal e Financial Times che, in caso di vittoria del no, arrivano a pronosticare un’Italia fuori dall’euro.
A questo punto il quadro degli interessi in campo appare chiaro.
Siamo veramente all’ultima spiaggia di una battaglia che va oggettivamente ben oltre i cinque quesiti referendari. O di qua o di là. O dalla parte di una riaffermata volontà di ripresa della sovranità nazionale ovvero della sua cessione. Chi vuole intendere intenda, per non doversi pentire il giorno dopo. Perché allora sarà troppo tardi.
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