Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
i vorrebbe Giovannino Guareschi. Non solo, in piena prigionia in un campo tedesco, riuscì a scrivere una bellissima Favola di Natale; alcuni suoi racconti sono straordinari soggetti natalizi. Niente melassa o zucchero filato: simili ingredienti di bassa lega non appartenevano certo al grande scrittore emiliano. Erano quei racconti scritti con un tocco di malinconia e con la consapevolezza profonda del dolore e delle difficoltà della vita, soprattutto negli primi anni del dopoguerra: ma animati, appunto, dalla speranza di una rinascita che aveva senz’altro un profondo afflato religioso, insieme a una fiducia nel cuore umano e nel carattere degli italiani. Viene in mente il bellissimo La Notte dei miracoli, in cui un reduce che ha perduto tutto e a cui suoceri arroganti e “iperborghesi” vorrebbero sottrarre anche la figlioletta, ma che trova insperato soccorso nei genitori di un compagno d’armi caduto; o Un pranzo da signori, dove una famiglia borghese in ristrettezza economiche dà prova, in occasione del Natale, di una fierezza e dignità che inducono all’ammirazione.
Ma erano tempi diversi. Terribili senza dubbio e chi non ne è stato testimone (e non ce ne sono ormai purtroppo più moltissimi) non può permettersi di parlarne con leggerezza o azzardare paragoni fuori luogo. Una cosa però – e questo Giovannino ce lo fa capire benissimo – era allora più viva che mai: la speranza di un domani migliore e la voglia di costruirlo. E Il Natale, più che mai, diventava il simbolo di questa volontà, ma anche di quelle radici cristiane e cattoliche grazie alle quali non ci si sentiva mai soli.
Inutile tediare il lettore con banali e scontatissime considerazioni su cosa possa essere rimasto di quello spirito. Allora, del resto, il capo della Cristianità faceva il suo mestiere, non aveva esitazioni e incertezze a definirsi papa, cattolico, romano; poteva anche, e a ragione, ammonire e rimproverare i suoi fedeli, ma senza disprezzo e acredine. Allora insomma, il Natale dava veramente l’idea di un ritorno rassicurante e trascendente. Dio tornava a farsi uomo e quella che per secoli era stata la luce nelle tenebre continuava a risplendere intatta.
Verrebbe piuttosto da chiedersi: se oggi Guareschi dovesse scrivere una favola di Natale, a chi si rivolgerebbe? Chi potrebbe scegliere come personaggi?
Chissà! Forse uno dei centomila giovani italiani che si trovano all’estero; qualcuno forse per sfizio, ma nella maggioranza dei casi per costrizione, o comunque per assicurarsi un futuro più solido e meno incerto di quello che il loro paese può garantire; e ridicolizzando certo l’arroganza supponente del ministro Giuliano Poletti, che si è permesso di schernirli con una protervia indegna, più che di un esponente governativo, di un qualsiasi genitore degno di tale nome. Davvero un bel tipo, il ministro Poletti; il suo curriculum dice che viene dal PCI e dalla Cooperative. Non è difficile immaginare Peppone e lo Smilzo che vanno a dargli un paio di robuste “nerbate” natalizie. Ma Peppone non vorrebbe avere nulla a che spartire con i compagni al caviale e champagne …
O avremo di scena il grande Don Camillo? Ma riuscite a immaginare il prete della bassa della mani grandi come badili, avere a che fare con Bergoglio & similclero? Proprio lui che chiamava l’altare conciliare “tavola calda”, rimpiangeva la bellezza e la sacralità dell’antica messa tridentina ( che continuava a celebrare in privato) e non sopportava i pretini progressisti alla Don Chichì…. Ecco, Don Chichì, il pretino arrogante e presuntuoso tutto modernismo, solidarietà e “sociale” ma incapace di scorgere la presenza di Dio e soprattutto di farla sentire ai suoi parrocchiani, potrebbe essere il perfetto ritratto di Bergoglio da giovane . Il suo vero nome (don Chichì era ovviamente il soprannome che gli aveva messo la gente del paese) era tra l’altro Don Francesco!
Guareschi è morto nel 1968 e ha fatto in tempo a scorgere solo le prime avvisaglie dei danni conciliari e postconciliari; ma anche in quel campo fu profetico, così come presentì amareggiato che il benessere materiale stava intossicando il tessuto sano della società italiana.
Difficile davvero, oggi come oggi, immaginare una favola di Natale alla maniera di Guareschi, anche a possedere almeno una parte della sua eccezionale fantasia e vena creativa. Forse la “favola” più bella è per certi aspetti il Natale stesso: e allora, immaginiamo un Natale in cui nessuno – a cominciare dai preti – si vergogni di allestire presepi per non offendere la “sensibilità altrui”. Immaginiamo una Natività che faccia davvero rinascere nel cuore inaridito degli “occidentali” il senso del sacro, l’amore per le Tradizione, per la propria identità culturale e spirituale.
Oggi come oggi sembra proprio una favola e ci vorrebbe davvero un Guareschi per raccontarla in modo degno. Ma se non riusciremo a trasmetterla ai nostri ragazzi e a dargli la voglia di farne invece una fantastica avventura, le prossime favole rischiano di essere – nel migliore dei casi – solo quelle, pur bellissime, delle Mille e una Notte. O Alì Babà e giù di lì.
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