Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Per la Brexit, neologismo diventato di uso corrente, creato dall’unione tra le parole inglesi “Britain” (Regno Unito) ed “exit” (uscita), ma reso reale dal popolo britannico il 23 giugno 2016 con il voto che ha sancito l’uscita dall’Unione Europea, a prevalere è stata la scarsa seduttività dell’Europa dei burocrati e delle lobbies. Poi certamente la ritrovata sovranità nazionale, insieme ai timori per un’immigrazione incombente ed incontrollata.
A vincere, l’8 novembre, con Trump, è stata l’America profonda, quella della piccola borghesia, segnata dalle crisi, e del nuovo proletariato costituito da pensionati, da ex militari, da quanti sono stati “espulsi” dal sistema produttivo a seguito della crisi del 2008; l’America che individua negli immigrati che "rubano posti di lavoro" e nella globalizzazione che li esporta le ragioni profonde della crisi americana; l’America che ha detto no ai “poteri forti”, ai potentati della finanza e del politicamente corretto, rappresentati da Hillary Clinton.
Qui da noi, il 4 dicembre, a votare per il no al referendum è stata l’l’Italia che non ha ascoltato gli appelli della “grande stampa”, nazionale ed internazionale, l’Italia che si è fatta beffe dello spread, dei rating, della volatilità dei mercati, dell’andamento delle Borse, che non è caduta nella trappola del falso cambiamento e che ha finalmente utilizzato, dopo gli anni del commissariamento della politica, il legittimo diritto al dissenso.
Che cosa ha dunque accomunato, pur nella loro oggettiva diversità, i tre avvenimenti-simbolo del 2016? Innanzitutto la volontà dei rispettivi popoli di “riprendersi” le chiavi di casa, decidendo dei propri destini. Poi certamente il rifiuto delle imposizioni, del conformismo dominante, dei piccoli ricatti sul salto-nel-buio. Infine la voglia di ridare forza al voto, dopo anni di falsi confronti e di omologazione diffusa. La “rottura” degli schemi è il segno tangibile di una voglia di cambiamento, che nasce da anni di frustrazioni politiche e sociali e dall’incapacità delle elites di rappresentare i reali interessi della gente. Chiamiamolo populismo, voglia di contare, sovranismo. Il dato di fondo è il diritto di contare, di essere capiti, di decidere del proprio destino.
Dopo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Italia, dopo il 2016 delle scommesse “impossibili”, ma vinte, nuove sfide si preannunciano. Nel 2017, il 15 marzo, andrà alle urne l’Olanda, dove appare tra i favoriti il Partito della Libertà del “populista” Geert Wilders. Il 23 aprile sarà la volta della Francia, con il primo turno delle presidenziali, dove il confronto sarà tra l’esponente della destra “sovranista”, Marine Le Pen, e quello della destra liberal-cattolica, François Fillon. Il 4 maggio toccherà alla Gran Bretagna, che voterà per le amministrative. In autunno sarà la volta della Germania, con le elezioni parlamentari.
Il confronto, ovunque, sarà sui temi di fondo dell’identità nazionale, della sicurezza, della sovranità politica, economica e sociale. Il 2016 è stato “un début”. Le scommesse vinte fanno presagire un 2017 dove “le combat” non mancherà. Italia compresa.
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