Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Tutti ai suoi piedi, ancora una volta, per l’ultima volta. Giornalisti, pubblico, social-network, tv, tutti. Che sia stato o meno un buon presidente, una cosa è certa: Obama è un formidabile artista.
Animale da palcoscenico, sublime illusionista che con un colpo di bacchetta magica (e magica retorica) è riuscito nel gran finale a trasformare l’ormai leggendario slogan “Yes, we can” in uno “Yes, we did” di grande effetto (mediatico).
Ad un certo momento (quello giusto), appare una lacrimuccia sul suo viso, bellissimo, e la folla subito spumeggia e ondeggia di travolgente commozione: piangono tutti.
Come ci sanno fare gli americani con le emozioni…
Otto anni fa, la sua scalata alla presidenza fu salutata come un evento quasi messianico. Per gli apostoli del progressismo di tutto il pianeta non vi era ombra di dubbio: l’elezione di un nero alla casa bianca non poteva che rappresentare uno storico giro di boa per l’umanità intera. Per la comunità afroamericana era un sogno diventato realtà: dall’oppressione assoluta al potere assoluto. Yes we can.
Ma a sentirsi we, noi, non erano solo i figli della schiavitù, eravamo tutti we. Un’onda di entusiasmo, uno tsunami di ottimismo per il futuro che travolse anche il vecchio continente.
Mai dopo la fine della seconda guerra mondiale un leader politico aveva goduto di un consenso così unanime, totale, trasversale.
Yes, we can. Non poteva che essere una grande presidenza quella Obama, che avrebbe reso gli Stati Uniti, anzi! il mondo intero! un posto migliore. Non poteva andare male.
È andata male.
Male a tal punto che gli americani non ne hanno più voluto sapere della politica di Obama né del suo partito, tantomeno della sua erede Hillary. Congresso, senato, presidenza, tutto è finito nelle mani dei Repubblicani. L’erede di Obama è addirittura la nemesi di Obama, il paradigma del cattivone politiquement incorrect: Donald Trump.
Prigioniero del colore della sua pelle, in questi otto anni Obama non è mai stato veramente il presidente dell’America colored. Al contrario, il suo mandato ha segnato il ritorno di violenze interrazziali come non se ne vedevano dagli anni 60 e le statistiche segnano nuovi record per quanto riguarda il numero di afroamericani in carcere, uccisi dalla polizia, disoccupati o dipendenti dall’assistenzialismo di Stato e buoni per la spesa.
Obama e la finanza
L’inizio dell’era Obama coincise con la grande crisi finanziaria. Epicentro: Wall Street. L’implosione di Lehman Brothers scoprì il vaso di Pandora della cartolarizzazione dei mutui subprime: le banche americane avevano intossicato i mercati di mezzo mondo con un’aggressività, una disinvoltura e una mancanza di responsabilità semplicemente vergognose.
Yes we can. Toccava ad Obama mettere la museruola a Wall Street, era lui a dover pretendere nuove regole di trasparenza agli squali della finanza, veri nemici dell’economia reale. Il mondo intero lo chiedeva, but Obama didn’t it.
Un imbarazzante colpo di spugna. Una telefonata alla Federal Reserve con l’ordine di iniziare a stampare un fiume di dollari, e tutti amici come prima.
Per far ripartire l’economia, le ricette di Obama sono state le solite: indebitamento e macelleria sociale. Un liberalismo feroce fondato su licenziamenti di massa e rimescolamento del mercato del lavoro, con stipendi al ribasso per poter fondare un’industria low cost made in USA, il tutto accompagnato da un neo-protezionismo mirato a colpire le aziende europee (Marchionne in questi giorni ne sa qualcosa, ma da vecchia volpe ha parato il colpo meglio di quanto fece Volkswagen un anno fa). Non proprio quello che ci si aspettava da un figlio della Chicago operaia, non proprio una politica da paladino degli ultimi.
Risultato delle manovre obamiane? Le élites sempre più élites, i grandi centri della finanza sempre più ricchi e ingordi. L’America delle campagne, l’America operaia del midwest e delle piccole città, l’America delle periferie è stata abbandonata ad un’indegna desertificazione economica e culturale (sulla questione guardare il bellissimo film del 2013 di Alexander Payne: Nebraska). L’America che ha votato Trump, l’America che vuole essere Great Again.
L’ideologia Obama
C’è stato poi l’Obama apostolo della politically correctness: l’Obama del gender, nemico ad oltranza delle associazioni pro-life, eroe del matrimonio gay. L’Obama dell’islam religione di pace e amore. L’Obama crociato pronto a combattere per tutte le cause delle minoranze, anche quelle più grottesche, come la polemica sulle “toilette transgender” negli edifici pubblici per coloro che non si sentono né uomo né donna.
L’Obama di tutte le battaglie che fanno breccia nel cuore dei campus del New England, nei salotti dei quartieri radical chic di New York o di Boston, sui social network…ma che sono distanti anni luce dalla vita, dai bisogni e dalla realtà dell’America profonda, del popolo. Un popolo abbandonato che strada facendo lo ha abbandonato.
La politica estera
Last but not least: la vera grande macchia del regno Obama: la politica estera.
Schiacciato tra l’incudine dei falchi della Segreteria di Stato, in mano al clan Clinton, e il martello della Cia (sempre nostalgica dei bei tempi della Guerra Fredda, ansiosa di rompere le uova nel paniere alla Russia appena se ne presenta l’occasione) Obama ha inanellato una sere di frittate che ora tocca all’Europa ingoiare. Primavere arabe benedette da Washington che si sono rivelate presto inverni islamici. La crisi ucraina pilotata pateticamente dalla Cia per sottrarre Kiev all’orbita russa. L’organizzazione e l’armamento dell’opposizione ad Assad che è sfociata nel massacro del popolo siriano e nella crisi migratoria. L’abbandono dell’Iraq e del Medio-Oriente all’Isis. La vendita delirante e senza criterio di armi all’Arabia Saudita. Le nuove ambiguità sui diritti di Israele. La pressione sull’Unione europea in chiave anti Putin. L’influenza arbitraria sulle strategie economiche delle singole nazioni europee (soprattutto la Francia), eccetera eccetera.
Sono passati otto anni, avevamo tutti sognato in grande con l’America, eravamo convinti che il cambiamento fosse dietro l’angolo, che tutto sarebbe andato per il meglio. L’elezione di Obama era l’anno zero della storia, il peggio era ormai alle spalle. Abbiamo peccato di ingenuità?
Yes we did…
Goodbye Obama
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