Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
uovo attentato del fondamentalismo islamico a Londra ripropone alcune considerazioni sul radicalismo, sul terrorismo, sui flussi migratori, sull’esistenza o meno di un conflitto di civiltà. Torniamo dunque su alcuni concetti già espressi anche su queste colonne, per tentare di fornire un ulteriore contributo al dibattito delle idee.
Partiamo da un presupposto: la storia d’Europa dimostra come sia falso quanto ancora una volta abbiamo sentito affermare da più pulpiti, e cioè che l’accoglienza sarebbe a fondamento della nostra civiltà. I grandi movimenti migratori, dopo quelli che hanno interessato i popoli del nord Europa in direzione del Mediterraneo, e che hanno avuto uno spiccato carattere d’invasione, si sono sviluppati in direzione degli altri continenti. Essi, dall’espansione dell’impero romano alla scoperta delle Americhe e fino alla stagione coloniale – ma, per certi aspetti, anche oltre – hanno visto l’Europa in funzione attiva e dominante, sia sotto il profilo militare che sotto quello economico, religioso, giuridico; insomma l’Europa “esportava” i suoi uomini e imponeva i suoi costumi, la sua cultura, la sua lingua (di volta in volta, il latino, lo spagnolo, il francese, l’inglese).
Quindi, l’accoglienza di cui si parla oggi, rappresenta un fenomeno relativamente “nuovo”, declinato nelle due forme alternative del multiculturalismo e dell’assimilazione, entrambe messe a dura prova – e in certi casi fallite, almeno nella percezione generale – dagli eventi di questi ultimi anni.
Con tutta evidenza, i problemi derivano quasi esclusivamente dalla massiccia affluenza di popolazioni islamiche in tutta Europa e in particolare in Italia; un’affluenza che, unitamente ad altri fattori, sembra avere risvegliato negli “accolti” spiriti di rivalsa storici e sopiti orgogli di appartenenza. Come già altri che l’hanno preceduto, l’attentatore di Londra era cittadino e nativo del Regno Unito e addirittura insegnava inglese ai bambini immigrati pakistani e, malgrado ciò, ha agito conto uno dei simboli della nostra civiltà. Per di più, a dispetto di alcune teorie secondo le quali sarebbero il disagio socio economico e l’emarginazione a spingere taluni soggetti verso il fondamentalismo e il terrorismo, in questo come in tanti altri casi – a partire dagli attentatori delle Torri Gemelle, fino a quelli di Londra nel 2005 e ai responsabili del massacro nel bar di Dacca – i protagonisti erano tutti islamici apparentemente bene inseriti nella società e addirittura agiati.
E qui torniamo ad un altro luogo comune del “buonismo mediatico”, secondo il quale si deve parlare sì di terrorismo, ma senza aggiungervi l’aggettivo “islamico”; di più: se proprio questa precisazione si deve fare, va mescolata con altre atte a depotenziarla, facendo una disgustosa insalata con quelli di altre stagioni, matrici e motivazioni, come il terrorismo riferito all’IRA, alle Brigate Rosse, agli indipendentisti algerini e perfino alla mafia. Insomma, ecco un bel modo per cloroformizzare le coscienze ai fini di un’artificiale tranquillità e, soprattutto, per negarsi alla comprensione dei fenomeni. E invece sarebbe più esatto ricordare che sotto l’etichetta di “terrorismo” va un complesso di tecniche impiegate di volta in volta, nei secoli, per seminare terrore e agevolare in tal modo il trionfo di questa o quella causa; ma se non s’investiga sulla natura e le finalità della causa, si resta all’esterno del problema.
E qui il problema consiste nella possibilità o meno d’integrare le masse crescenti d’immigrati, con particolare riguardo a quelli la cui civiltà d’origine e di appartenenza appare più problematica, ai fini della convivenza e dell’assimilazione. Non è un caso che mai abbiano causato problemi politici, religiosi e demografici, gli immigrati filippini o cinesi e meno che mai quelli rumeni, albanesi e polacchi. Basti ricordare che in paesi come la Francia, l’Inghilterra e la stessa Italia la percentuale di coloro che affermano di vedere e volere la sharia al di sopra delle leggi vigenti nello Stato che li accoglie oscilli fra il 25 e il 28%.
Ora, anche da noi è all’esame del Senato un complesso di provvedimenti volti alla “deradicalizzazione”, specialmente degli immigrati islamici. In proposito, Alain de Benoist, sull’ultimo numero di Diorama Letterario, contesta una simile scelta semantica: “Si tratta di impedire a certe persone di volgersi verso la radicalità? E perché? Sembra si dia per acquisito che la radicalità è sinonimo di estremismo, il che è assolutamente inesatto. La radicalità è un atteggiamento di rigore, che va alla radice delle cose. Implica la convinzione, l’intransigenza, non certo il fanatismo. E poi, di che radicalità si tratta? La radicalizzazione in sé non ha alcun significato. Parlando di radicalizzazione senza altre precisazioni si cerca in realtà di far credere che l’islamismo radicale non sia una forma dii islamismo, ma una forma di radicalità come le altre”. Ancora una volta, in definitiva, come nell’uso indiscriminato del termine “terrorismo”, si cerca di far vedere tutti gatti neri nella notte nera. Del resto, in Francia, misure analoghe sono già state sperimentate e non hanno prodotto alcun risultato apprezzabile.
Il fatto è che il jihadismo appare come una soluzione praticabile e gratificante a individui alla ricerca di punti di riferimento esistenziali, in società dove sono in frantumi le comunità – a partire da quella familiare, fino a quella del lavoro – e dove la secolarizzazione ha indotto forme di materialismo, di egoismo e di nichilismo, di fronte alle quali la scelta di una religiosità fondamentalista si mostra troppo spesso più attrattiva. Leggiamo Pierre-André Taguieff, citato da de Benoist: “Agli occhi del jihadista, la morte da martire dà alla vita il suo pieno senso. E’ quel che l’Occidente convertito all’individualismo edonista non può più capire se non attraverso la categoria della barbarie”. Ma, aggiunge de Benoist, “…di fronte alle forti convinzioni religiose dei jihadisti – preesistenti o indotte, ndr – i valori universali secolarizzati non reggono. Nessuno è pronto a morire per la laicità”.
In questi giorni, ci è capitato fra le mani un volumetto in cui sull’Islam si dicono cose molto interessanti, specie nell’ottica del confronto e delle problematiche dell’integrazione. Il titolo può apparire fuorviante – “Decisivo il confronto religioso a Roma” – ma i due Autori, Ennio Innocenti e Alessandro Barilà, trattano proprio dell’Islam, riuscendo a conciliare esigenze divulgative e rigore scientifico, in modo da fornire chiavi di lettura dell’attualità e, nel caso di Barilà, possibili vie d’uscita. Ed è un peccato che né l’Editoria né la Distribuzione abbiano ritenuto questo saggio, breve ma denso, degno di attenzione (formalmente, l’Editore è la “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, con sede in Roma, via Capitan Bavastro 136).
Secondo Barilà, alla luce del percorso storico comparato fra le due religioni – quella cattolica e quella islamica – l’unica via d’uscita dalla tragica impasse in cui ci troviamo, sarebbe rappresentata dalla secolarizzazione della religione di Maometto, in forza dei contatti con la tecnica, la democrazia, la diffusione dei diritti individuali, insomma con la civiltà occidentale secolarizzata di cui si parlava. Si tratta di una via d’uscita che, a nostro avviso, dietro l’apparenza di un trionfo della civiltà “occidentale”, sa di resa della più autentica spiritualità alle ragioni del Mercato, della Tecnica, del Materialismo. Viene insomma abbozzata un’ipotesi di futuro di omologazione, dove il prezzo dell’affrancamento dalle paure e dal sangue sarebbe quello di una quieta disperazione. Avremo modo di parlarne ancora.
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