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24 aprile 2007-2017

Sigfrido Bartolini: il vero, il bello, il buono o della necessità di testimonianza

Se il bello è fuggito , il sacro silente, i valori defunti rimane la lezione di un artista che ha testimoniato l'esistenza di chi ancora credeva nella bellezza

di Simonetta  Bartolini

Sigfrido Bartolini: il vero, il bello, il buono o della necessità di testimonianza

È imbarazzante scrivere del proprio padre dieci anni dopo la sua morte. È imbarazzante perché se scrivi: “Mio padre…” ti sovrapponi a lui, cioè stai scrivendo di te attraverso lui; se scrivi: “Sigfrido Bartolini…” mostri la distanza dovuta dal soggetto rievocato, ma ti senti ridicola, stai forzando gli equilibri fra l’affettività e l’obbiettività. Così ieri, 24 aprile, anniversario della sua morte ho taciuto, ho concesso alla figlia di ricordare suo padre nella solitudine dell’intimità.

Oggi lascio spazio alla memoria depurata dalla commozione.

Eppure il disagio non scompare, non si dissolve, non lascia spazio alla serenità pacificata. Questa volta però non è colpa mia, questa volta il problema è lui, Sigfrido Bartolini, classe 1932, pittore scrittore, incisore, giornalista a tempo perso (e in effetti scrivere per i giornali non gli piaceva affatto). Il problema è riproporre la figura di un artista e di un intellettuale che non è ancora da storia della cultura, ovvero museificato (troppo poco tempo è passato perché la sua opera possa essere storicizzata),  e non è più attivo nelle dinamiche culturali contemporanee, e non solo perché è morto da dieci anni, ma perché, quelle che ho impropriamente chiamato dinamiche culturali, in effetti sono una faccenda che esclude ogni vero rapporto con la cultura come impegno civile ed estetico. E per Sigfrido Bartolini essere un artista significava appunto impegno poetico, civile, estetico, etico.

Il vero, il buono, il bello li chiama oggi Stefano Zecchi nel suo ultimo bellissimo libro Paradiso occidente, utilizzando un lessico dal profondo significato filosofico che sembra essere uscito dal corso legale come la lira. E, esattamente come quella, rimpianto da molti, ma irrimediabilmente deposto a favore dell’euro (per proseguire con l’analogia), moneta falsa, dove il virtuale coincide con il reale nel nome degli interessi della finanza che a sua volta ha sostituito l’economia.

Nella cultura è accaduta la stessa cosa: il vero, il buono, il bello hanno lasciato il campo a variazioni semantiche distorsive dove significato e significante non coincidono più.

Crediamo che sia vero il mondo dei social perché “libera” espressione “autentica” di ciascun utente, ma ci dimentichiamo che in nome di questa possibilità di esprimere quel che a ciascuno passa per la testa al netto di ogni doveroso pudore (fosse solo il pudore che è andato a ramengo, lo hanno seguito disinvoltamente, pietà, buon senso, buon gusto ecc. ecc.!), abbiamo rinunciato al diritto di essere persone, individui, per assumere l’identità di utenti (di facebook, di twetter, di istagram) nello stesso modo in cui ci siamo allegramente trasformati in consumatori per avere le varie tessere fedeltà che ci procurano sconti (spesso fasulli), e sudditi in un succedaneo della democrazia.

Così se ne sono andati il buono e il bello che al vero sono strettamente connessi da reciproci rapporti di affetto e di stima. Occorre ricordare l’uso distorto e contrario alla vera carità cristiana che stiamo facendo della bontà esercitata a piene mani solo nei confronti delle categorie socialmente accreditate, e lesinata a quelle meno seducenti? Non si spiega altrimenti che si soccorrano i migranti, ma non i nostri poveri, quando la categoria della bontà dovrebbe essere equamente esercita su entrambi.

Non è necessario altresì richiamare la definitiva e irrimediabile morte del buon gusto (padre misconosciuto insieme all’eleganza della bellezza) che dall’abbigliamento, al decoro (?) urbano, alle istallazioni squinternate che popolano le nostre piazze storiche e le periferie degradate in equal misura, ci abituano quotidianamente al brutto che viene rilanciato senza sosta dalle pagine dei giornali, dai cartelloni pubblicitari agli show televisivi di ogni genere.

Ecco, come si fa a ricordare Sigfrido Bartolini in questo genere di mondo? chi può ascoltarci, comprendere, condividere (non con un like, ma nel profondo) se scriviamo della sua disperazione di fronte allo spettacolo della bellezza stuprata in maniera sistematica e irreversibile:

Autunno lento e stanco, le foglie sono ancora quasi tutte su gli alberi, solo i pampani delle viti sono in parte caduti e altri esplodono in gialli e rossi. C’è una coltre di foschia che rende le cose appena lontane come fossero di feltro; alberi, campi e case son fusi in questa morbidezza dolce, dai colori leggeri, velati, malinconici. Mi sembra di avvertire la morte del mondo, di un mondo che è solo mio, e vedo tutto come un’apparizione provvisoria, un miraggio di cose che non esistono più, suscitato da me per sopravvivere alla barbarie. Quante volte mi è riecheggiato il grido doloroso udito dai marinai in navigazione e raccontato a Tiberio Cesare: - Pan, il dio Pan è morto! – Era la fine del solare mondo pagano, ora è la fine della civiltà erede di quel mondo, sia pure ingentilita dal cristianesimo.

Pan è veramente morto.

Scriveva così Bartolini nel suo diario, nel novembre 1984, e ancora non aveva visto i tempi che stiamo vivendo, per sua fortuna ebbe solo a intuirne la devastante rovina senza assaporarne il gusto fino all’accelerazione distruttiva dei nostri giorni.

Credeva nella poesia seppure avesse la coscienza che ormai era morta alla creazione, credeva nell’arte nonostante sapesse di vivere in tempi negati ad essa; nutriva una fede disperata nel sacro pur cosciente che esso era stato cacciato dal nostro mondo spirituale ed estetico; praticava in perfetta solitudine l’onestà intellettuale, l’etica del lavoro serio che non concepisce l’artista come romantico genio cui tutto è concesso nel fervore della creazione, ma come onesto artifexdi carducciana memoria.

Così le case solitarie, prive di finestre e di vita al loro interno, moderne fortezze dai volumi imponenti e dai colori ghiacciati dal tempo che dipingeva nei suoi quadri, cercavano, da una parte, di rievocare un mondo perduto e nostalgicamente rimpianto e dall’altra di lasciare testimonianza di una bellezza che stava anche in semplici case di contadini delle nostre campagne, la bellezza della semplicità antica prodotta da uomini per gli uomini.

Ecco l’imbarazzo di ricordare Sigfrido Bartolini in tempi così sordi ad ogni richiamo del vero del bello del buono, ad ogni estetica che sia etica.

Però, adesso che ci penso, il disagio è tutto e solo mio che faccio fatica a credere nel valore della testimonianza che pure in ogni tempo, anche nel più squallido e devastato ha il potere di non lasciare morire il filo sottile della speranza che l’arte, la poesia, la bellezza non siano morte al mondo, forse sprofondate in un sonno pesante, ma vive ancora di una vita esile. Sigfrido Bartolini credeva nel proprio lavoro come testimonianza, la testimonianza che almeno fino al 24 aprile 2007 un artista, uno scrittore, un intellettuale non si è arreso al brutto, al falso, al cattivo, e ricordarlo oggi nella miseria che ci circonda in effetti non è inutile, ma forse è veramente buono, vero, bello.  

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