Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Un set. Un set di Apocalypse now. Appena messo il piede a terra dal C130 dell’aeronautica militare che da Al Bateen ci ha portato ad Herat, 4 ore di volo dure e pesanti, la prima impressione è quella di essere arrivato ad Hollywood.
Jet sulla pista che decollano, militari in ogni dove, la funzionaria della Farnesina presa in consegna dalla scorta e portata via con le auto blindate. Tocca al Ministero degli esteri coordinare i progetti di cooperazione. Niente soldi, quelli vengono gestiti dalla coalizione. No, qui ora il punto è insegnare ai locali come fare. Da soli, nonostante siano maledettamente affetti dalla sindrome dell’abbandono.
Hanno paura a restare da soli in uno Stato che non esiste.
Lasciamo la pista, lei verso il centro di Herat. Noi verso la base.
Là le garrite, di qua i muri di protezione, le barriere anti-polvere e anti-intrusori. E guardie armate. Un aeroporto, quello d Herat, che non è solo uno scalo aereo, ma la base delle forze della coalizione presenti in Afghanistan.
Insomma, qui batte il cuore dell’operazione, ma l’Afghanistan, quello vero, non è qui. Qui c’è il set, gli esterni sono nelle altre province, dove soffiano i venti di guerra e la tensione è alle stelle.
Nessuno lo dice apertamente, anzi le parole vengono usate con parsimonia, con misura, come se un verbo in più possa far danni più delle armi. Che parlano, eccome se parlano. Perché prima della transizione, la fase in cui gli alleati passano le competenze agli afghani, c’è da insegnar loro come fare, “ripulendo” le aree a rischio dagli insorti. Che sono una entità armata dentro un corpo martoriato.
I carabinieri, in una base ad 80 chilometri da Herat, stanno formando i poliziotti locali, i celerini afghani, e le forze speciali. “Un lavoro duro”, dice un carabiniere, “ partiamo dal nulla. Però qualcosa riusciamo a tirare fuori.”
Ecco quella parte di lavoro nascosto che c’è ma non si vede. Perché qui è tutta una quinta, appoggiata ad uno sfondo da decifrare.
“In alcune province –racconta un ufficiale – gli abitanti non sanno nemmeno in che stato abitano, al punto che ci prendono per russi”.
Ecco questa è la terra dei campi di papaveri, dei talebani che attaccano i convogli solo per marcare il territorio. E dei militari che devono giocare un doppio ruolo: costruttori di futuro e controllori del presente. Non è facile, sia chiaro, ma non è nemmeno facile comprendere perché siamo qui. E gli americani dove sono, ho visto un marine allo spaccio.
La loro base è a due passi da quella dei nostri soldati, ma è come se fossero su di un altro pianeta. Loro, gli uomini a stelle e strisce, hanno già mollato. Noi no, noi teniamo il punto. E lo facciamo con lo spirito italiano, pizza a cena, kefiah e mimetica il giorno. Ma di cinematografico c’è solo la visione. La realtà è molto più dura.
Inserito da Gian Galeazzo il 02/04/2012 23:09:19
Mi Sembra una rappresentazione sobria ma efficace del lavoro duro ed oscuro che stanno facendo i nostri militari in Afdhanistan ed altrove. Si e' ripetuto troppe volte che in fondo fanno da supporter di secondo livello dei padroni americani. Questo articolo dice qualcosa di diverso. Dice per esmpio che in Afghanistan gli americani hanno gia' mollato e che i nostri invece, (ammirevolmente , con questo sfascio che abbiamo in Patria) tengono il punto. Possiamo ricordarlo ogni tanto: piaccia o non piaccia , i nostri militari in tutte le cosiddette missioni di pace a cui hanno partecipato sono riusciti a dare un immagine dell'Italia di primissimo ordine, nettamente migliore di quella media che danno le altre componenti della vita nazionale.
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