Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Lo fa con prosa lieve e profondità concettuale. L’interesse per il vino non è, pertanto, un semplice e dotto divertissement, a latere del percorso teoretico dell’autore, ma il luogo nel quale si rivelano gli snodi portanti della sua filosofia. Nell’epoca del chiacchiericcio intellettuale, universalizzato dalla dimensione mercuriale della tecnica, Donà si contrappone ai simulacri conoscitivi dominanti, costringendo il lettore a porsi in dimensione dialogica ed aperta nei confronti della esegesi eno-filosofica che egli propone. Obiettivo perseguito, esplicitato fin dalle prime pagine del volume, sta nel presentare la doppiezza che connota la bevanda sacra. Il vino è esperito come paradigma della ambiguità di tutto ciò che esiste “ché la nostra anima è sempre luminosa ed oscura ‘insieme’” (p. 16). Infatti, come aveva colto Nietzsche, la potenza del dionisiaco non si concede nell’alternarsi di assennatezza e di ebbrezza, ma nella loro coesistenza. Con Baudelaire, il nostro autore è convinto che il vino sia dotato di anima: essa può rivelarsi all’uomo solo attraverso la corretta degustazione. Il vino riflette “l’essenza stessa del nostro originario costituirci come animali dotati del logos” (p. 24), del nostro mostrarci nel linguaggio, nei gesti e, soprattutto, nei conviti, durante i quali proprio il vino mette in discussione l’astrattezza della solitudine e della separazione. Per questo “Parlare del vino è come parlare della verità” (p. 25).
Si badi, però! Il nettare di Dioniso ci libera dall’idea di verità affermatasi con il principio incontrovertibile dell’identità eleatico-aristotelica, verità escludente l’errore. Infatti, per influsso del vino, tutto si sdoppia ed ogni cosa appare equivoca, parziale, non autosufficiente. La conoscenza enoica “porta alla luce”, in uno, il vero ed il falso. La produzione e la consumazione del vino hanno valore simbolico, mai meccanico. Pur essendo risultato di rigore produttivo, il “che cos’è” del vino, va ben al di là di una sommatoria di azioni e fini. La bevanda è aperta ed apre all’imponderabile. Ha natura erotica, suggerisce, il suo dire allude al Sacro, “l’abisso che ci sorregge e ci espone alle insidie più sottili” (p. 29). Vivifica il nostro esser-nel-mondo donandoci un universo di immagini: in esso le cose manifestano la loro originaria “inoggettualità”, la dimensione negativa che gli è “consustanziale”. La trasfigurazione del reale realizzata dal vino è di natura estetico-alchemica. Lo ha compreso, ricorda Donà, Roland Barthes, il quale sapeva che il vino “genera nella bellezza[…]portando alla luce il “vero”: ossia l’esser negato di ogni astratto distinto, di ogni fissa e morta positività” (p. 32).
Un bicchiere di vino, quindi, non è semplicemente buono, ma anche bello. Il lucore psichico indotto dalla bevanda inebriante, è sempre accompagnato da un tratto oscuro. Insomma, l’ebbrezza non rinvia ad un rassicurante “al di là” contrapposto ad un “al di qua”, ma ci fa cogliere, “in esperienza”, l’insignificanza della contrapposizione logica degli opposti. In tale esperire, patire ed agire sono facce della stessa medaglia, come esemplificato da Socrate nel Simposio platonico: la sua ubriachezza-sobria svela la verità dell’ebbrezza di Alcibiade “è proprio Apollo a decidere la verità del dionisiaco[…]E’ il Kosmos, insomma, a dire il Chaos come apertura del proprio stesso manifestarsi” (p. 49). Alla medesima convinzione era giunto Leopardi, così come “Valeri, Comisso, Zanzotto, usi ad interminabili ‘simposi’, ben bagnati dal prosecco” (p. 60), sostenuti dalla convinzione che le libagioni conservassero “il profumo di una sorta di fioritura originaria” (p. 61), della medesima natura del ricordo felice evocato da Kierkegaard.
La conoscenza enoica è purezza gnoseologica, vale a dire è desiderio che ci muove senza far riferimento a ragioni o scopi, immediato. Ogni cosa amata, rileva l’autore, è sempre amata per nulla, è amata perché la si ama. Tale desiderare è espressione “di una vera e propria incondizionatezza[…]e dunque qualcosa che da ultimo si connette alla vera e propria natura del cosmo in quanto tale” (p. 91). Ogni cosa esistente è endiadi, caso e necessità in continua rideterminazione. Il vino induce tale visione, ci lascia riconoscere “nella finitezza del finito, una finestra aperta sull’infinito” (p. 99). Muovendo da tali assunti, Donà rivendica il significato politico del conoscere legato al vino: chi conosce la “doppiezza” delle cose, dovrebbe, nel suo agire comunitario, impegnarsi a far vivere la legge “non tanto come costrizione[…]quanto come piena espressione della libertà e dell’autonomia delle sue componenti” (p.116). Del resto, il problema politico, da sempre, sta nella ricerca del difficilissimo equilibrio tra identità e differenza, che la legge dovrebbe perseguire e realizzare. Nella fase storica attuale tale intuizione ha ricadute evidenti nell’ambito ecologico, in quanto “anche la natura va rispettata come l’altro senza di cui non saremmo mai quel che siamo” (p. 112).
Più in generale, la stessa esperienza produttiva enoica insegna che il “nuovo”, in questo ambito come nella vita, è rigenerazione di un’esperienza che non si dovrebbe mai rinnegare, ma tornare a vivificare. Rigenerazione di noi stessi che sperimentiamo nel “rito” della condivisione, messo in atto nella “sacro-santa” bevuta in compagnia. Da buon veneto, Donà assume quale paradigma di tale contesto lo “spritz” sorbito con gli amici in un bacaro. In simili circostanze “ci si sente in procinto di liberarsi innanzitutto da sé, e proiettati verso la possibilità di un vero incontro…quello con un’alterità autenticamente liberatoria” (p.132). Lo sguardo di Dioniso libera la vita dalla gravità cosale e la rende disponibile alla danza metamorfica del nulla!
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