Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Il riconoscimento di una specificità culturale che si rinnova di generazione in generazione e che si colloca dentro confini naturali ben definiti assume i toni dell’irredentismo, quando tale riconoscimento viene sminuito o addirittura negato da un’autorità che si pretende superiore. L’irredentismo appare allora come una categoria universale, che attraversa la storia e stempera le differenze fra i vari casi: a volte ci si trova di fronte a popoli che vedono conculcati i propri diritti (ad esempio, quello di esercitare una sovranità negata su di un determinato territorio); altre volte si postula l’esigenza di una separazione (se ne veda l’esempio di una consensuale, fra Cekia e Slovacchia o, sul fronte opposto, di una conflittuale e denegata fra valloni e fiamminghi in Belgio); altre ancora, le richieste si fermano ad una sorta di federalismo fiscale (che a volte, come a Boston nel 1773, dissimulano a malapena conati d’indipendenza dalla madrepatria).
Di passata, è opportuno ricordare che non vanno confusi i progetti federalisti con quelli di autonomia o, addirittura, di secessione: di regola, infatti, il federalismo comporta un processo di unificazione fra entità culturali e territoriali diverse ma affini, mentre le pretese di autonomia o di secessione sfocerebbero nella separazione di entità unitarie, ma composite e ritenute troppo diverse per continuare a stare insieme.
Tuttavia, alla radice delle rivendicazioni delle “piccole patrie” vi è qualcosa di meno prosaico della contestazione di una tassa o della pretesa di riappropriarsi del gettito fiscale dirottato dalla periferia al centro: alludiamo all’orgoglio dell’appartenenza a un popolo caratterizzato da unità di lingua, di costumi, di storia, di religione e, infine, di destino. Il dopoguerra ha registrato, da noi, i tentativi separatisti di Sicilia e Sardegna, ma soprattutto il malumore della minoranza di lingua tedesca in quello che per noi è l’Alto Adige e per i fautori dell’autonomia è il Sud Tirolo; in Europa, i casi più spinosi sono stati a lungo la vera e propria guerra civile fra l’Irlanda cattolica e la Corona britannica, ma anche il rivendicazionismo intransigente dei Paesi Baschi, nei confronti della monarchia spagnola, in particolare durante il regime franchista.
Ora, ancora una volta la Spagna si trova di fronte a una drammatica frattura con la Catalogna, che non si accontenta più dello statuto di autonomia a suo tempo conseguito. Forse, per comprendere meglio il fenomeno, dovremmo riflettere sulle condizioni attuali degli Stati nazionali e, in Europa, sulla parodia d’impero che abbiamo messo in piedi come un’Unione, che sembra ogni giorno di più disunione. Ma non basta: dovremmo cercare di capire come mai il mito fondativo di alcuni popoli viene identificato con una sconfitta. E’ questo appunto il caso della Catalogna, la cui Diada, il giorno della festa nazionale, cade l’11 settembre – cupa ricorrenza di date infauste! – e celebra la caduta di Barcellona, con la conseguente annessione, dopo l’assedio delle truppe di Filippo V di Borbone, nel 1714.
Similmente, per la Serbia, la nascita di una nazione coincide con la sconfitta nella battaglia della “piana dei merli” contro i Turchi, nel 1389. E, a proposito di date infauste alle origini di una statualità, come dimenticare la sequenza che, per la nostra Italia, porta dal 25 luglio all’8 settembre al 25 aprile? Tutte date che, a detta di uno storico come Ernesto Galli della Loggia, non certo arruolabile nelle file dei simpatizzanti del fascismo, hanno segnato non già la nascita, ma la morte della Patria. In tutti questi casi, ci troviamo comunque al cospetto del mito e della tragedia, categorie più nobili di quelle economiche e che affondano le radici nell’immaginario collettivo e nella psicologia profonda di un popolo.
Oggi le istanze autonomiste devono confrontarsi con un ulteriore fattore di complicazione: il mondialismo consolidato sul terreno economico, ma in costante crescita anche su quello linguistico e, soprattutto, su quello del pensiero unico. Cosa vogliono fare, nel gran teatro del mondo, le potenze, piccole o grandi, che hanno già conseguito la propria autonomia o che intendono conseguirla? Dicevamo della crisi degli Stati nazionali: ad onta di ogni declino, vero o presunto, nessuno Stato può consentire la secessione ad una porzione territoriale ed al popolo che la abita, per via democratica. Il principio di autodeterminazione dei popoli, infatti, si scontra contro quello della sovranità e, laddove non si addivenga ad un accordo fra i leader interessati, sulla base del diffuso sentire, non vi è che il ricorso alla forza, come stiamo vedendo nelle azioni repressive della Guardia Civil intorno ai seggi elettorali di Catalogna.
E quanto a quest’ultimo caso, va ricordato che quel popolo e quella entità giuridica – peraltro dotata di larghissima autonomia, al punto di avere un proprio ministro degli esteri – non si sono riconosciuti nella Spagna franchista e non si riconoscono in quella democratica di oggi.
Sul fronte delle autorità sovranazionali, poi, il ricorso all’Unione Europea – già agitato invano dagli autonomisti scozzesi in occasione della Brexit – appare a dir poco patetico, se non pretestuoso. Ognuno infatti ha sotto gli occhi le differenze fra gli imperi del passato, capaci di dirimere o reprimere ogni controversia fra i popoli al loro interno, e le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, prive non solo degli strumenti costituzionali idonei, ma anche sprovviste di qualsivoglia volontà univoca e di forza politica (senza parlare di un’autentica legittimazione democratica).
In conclusione, vanno riconosciute dignità e agibilità alle identità culturali dei popoli, ma lo strumento delle piccole patrie, nell’attuale scenario geopolitico, fatto di grandi blocchi, appare a dire poco problematico.
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