Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
ra i caratteri dell’Italiano figura l’attitudine velleitaria a riscrivere la Storia nazionale – e non solo da parte degli specialisti - esclusivamente in maniera partigiana; limitiamoci a quella più recente: pensiamo all’epopea risorgimentale, dove tutti i “buoni” sono collocati fra “piemontesi” e “garibaldini” e tutti i “cattivi” fra i borbonici e i “papalini”. Sono davvero rari gli studiosi che hanno tentato una sintesi - anche a distanza di tempo da quelle vicende - fra i valori di coloro che hanno unificato la Patria sulla scorta di una visione laica e nazionalista e quelli dei loro avversari, legati a una visione dove si conciliavano fedeltà dinastica, rispetto delle tradizioni locali e sensibilità religiosa non disgiunta dal civismo.
Su questa linea, sono stati ignorati o sminuiti, ad esempio, i frutti del Regno borbonico: alla rinfusa, citiamo i primi tentativi di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese, effettuati nella manifattura di S. Leucio; gli albori dello Stato sociale e assistenziale, con la costruzione del monumentale Albergo dei Poveri, a Napoli; l’attenzione per l’ambiente, concretizzatasi con la creazione del Parco della Favorita a Palermo e della pineta di Fiaiano a Ischia, ma anche con la realizzazione dei Regi Lagni, fra le più importanti opere di depurazione mai compiute fino ad allora; la prima ferrovia italiana - la Napoli-Portici – e il fattivo interesse per le grandi opere e per l’arte (rientrano in questa categoria la realizzazione della Reggia di Caserta, in grado di rivaleggiare con quella di Versailles, e la fondazione di una ricca pinacoteca nella Reggia di Capodimonte, che sarebbe poi diventata Museo, nonché l’avvio e il grande impulso dato agli scavi di Pompei ed Ercolano). In tema di crudeltà, poi, sia il Regno sconfitto che quello vittorioso hanno lasciato esempi deplorevoli, come sempre accade nelle guerre: nei secoli e nelle diverse circostanze, alla feroce repressione seguita alla caduta dell’effimera repubblica del 1799, fa in qualche modo da contraltare la non meno feroce repressione del brigantaggio legittimista ad opera dell’esercito piemontese e dei garibaldini.
Tuttavia, se il Risorgimento, con il susseguirsi delle generazioni, ha visto attenuarsi i risentimenti e le nostalgie dei sostenitori della cultura sconfitta (ormai neo-borbonici e neo-asburgici rappresentano poco più che minoranze esigue e folkloristiche), lo stesso non si può dire davvero del fascismo: più passano gli anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, più sembra intensificarsi la campagna di odio e discredito nei confronti del regime, almeno da parte delle istituzioni e del circo mediatico.
Per un breve periodo, grazie soprattutto a Renzo De Felice, studioso insospettabile di simpatie fasciste, era sembrato che si potesse arrivare ad un più equilibrato e sereno giudizio su quel periodo della nostra storia; poi era sopraggiunto addirittura un filone storiografico deciso a gettare luce anche sui crimini commessi dalla parte vincitrice (soprattutto per merito di Giampaolo Pansa, che, da antifascista onesto, aveva ripreso e ampliato le ricerche già pubblicate da studiosi neo-fascisti come Giorgio Pisanò, fino a quel momento colpite dalla congiura del silenzio).
Oggi questo fervore “revisionista” sembra tramontato; anzi, ci troviamo nel pieno di una rinnovata campagna antifascista, con toni che vanno dalle grottesche accuse a movimenti che apertamente al fascismo si richiamano (Casa Pound) fino ad alcune improvvide iniziative legislative e alle dichiarazioni ufficiali recentemente rilasciate dal Presidente della Repubblica, tutti fermenti che sembrano avere motivazioni squisitamente politiche (con la minuscola) se non elettoralistiche (il 4 marzo è vicino).
Così, al fascismo – all’ur-fascismo, avrebbe detto Umberto Eco – si fanno risalire la capocciata mediatica del boss Spada al giornalista che lo intervistava e i successi del populismo europeo, le reazioni dei popoli di borgata contro gli immigrati e le sciocche bravate di frange delle tifoserie calcistiche, i conati di rivalutazione del regime da parte di politici (a loro volta non disinteressati) e le misure di alcuni governi dell’est europeo, volte a tutelare le rispettive popolazioni e culture. Insomma, tutto (il negativo) è fascismo.
Del resto, anche sul piano lessicale, l’accusa ignominiosa (fascista!) ha assunto il significato generico di soggetto violento, intollerante, razzista e via elencando tutte le possibili negatività della nostra epoca. Si arriva a metter mano alla toponomastica – a Napoli, a Roma e in chissà quali altri piccoli centri – per espungere dalla memoria perfino i rappresentanti meno noti dell’odiato regime (c’è stato una Presidente della Camera che solo ieri - cioè non all’indomani del 25 luglio o dell’8 settembre - ha proposto di cancellare la scritta “Dux” dall’obelisco del Foro Italico a Roma…).
Ancora di più: del fascismo si è ricordato non tanto e non solo l’entrata in guerra, quanto la deprecabile legislazione razziale, cestinando tutte le realizzazioni – materiali e culturali – compiute in meno di vent’anni di storia. Si dimentica che la storia di una nazione non ha e non può avere vuoti, ma si sostanzia di una catena ininterrotta di cause ed effetti le cui interazioni sono complicate e assoggettate alla relatività, appunto, delle fasi storiche (quello che oggi appare assurdo aveva una sua logica duecento o anche solo cinquanta anni fa). Si va giù con la sciabola e la clava anche nei programmi scolastici, ad esempio dimenticando il ruolo che proprio gli ebrei hanno avuto nella nascita e nello sviluppo del fascismo, e omettendo di spiegare la temperie internazionale che indusse il Capo di quel regime, assoggettato a inique sanzioni internazionali, a seguire le orme, in questo sciagurate, della discriminazione antisemita.
La nostra storia viene così paragonata ad un palinsesto televisivo, da ricomporre di volta in volta con il telecomando del Pensiero Unico. Dire che il fascismo fece anche “cose buone” non solo non si può dire, ma si deve arrivare a non farlo pensare. Dimentichiamo che gli stessi uomini dell’apparato statale che servirono sotto il fascismo furono protagonisti, ai vari livelli, anche della macchina dello Stato repubblicano e antifascista; dimentichiamo che Enti e istituti dello Stato assistenziale (INPS, ONMI, TFR e così via), i Codici giuridici, la legge Bancaria, la riforma della scuola, nati col fascismo, hanno continuato ad operare anche dopo la sua caduta; dimentichiamo e facciamo dimenticare ai nostri figli che gran parte degli edifici pubblici di questo paese – tribunali, teatri, impianti sportivi, case popolari, ospedali – sono stati edificati dall’odiato regime; dimentichiamo perfino che buona parte delle ferrovie, delle strade, dei porti, degli edifici pubblici di quelle che furono le nostre colonie sono ancor oggi in uso. Tutto questo passato avrebbe dovuto portare ad una felice sintesi, una volta spenti i fuochi della guerra civile; e invece, grazie a queste ricorrenti campagne di odio, ancor oggi il 25 aprile viene vissuto come una festa divisiva. Eppure, non sono mancati interventi pacificatori, come quello del Presidente della Camera Violante e dello stesso Presidente Napolitano; ma le meschine esigenze della bottega politica odierna e delle personalità in campo ci hanno fatto fare importanti passi indietro.
E ora godiamoci questa “damnatio memoriae”, dove i silenzi e le menzogne si mischiano insidiosi alle parziali verità, per tenerci immersi nella palude mediocre dei nostri giorniNon possiamo nn dirci conservatori, e allora attenti con la santificazione della tecnologia
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