Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Dalla primavera del 2017 la Francia si trova di fronte al problema dei “foreign fighters” di ritorno, giovani (alcuni minorenni) che avevano abbracciato la causa dello Stato islamico ed erano partiti in Siria e in Irak per combattere con l’Isis.
Almeno una trentina di minorenni sono già stati presi in carico dalle autorità francesi. La società si interroga, che fare di questi giovani? Quanti ne arriveranno ancora? Un reinserimento è possibile?
Due giornalisti di LeFigaro, Nadjet Cherigui e Noël Quidu, si sono recati a Erbil, Irak, e hanno incontrato sul posto alcuni di questi adolescenti-soldato che, indottrinati e addestrati per combattere la djhad, saranno presti rimessi in libertà.
Erbil, Kurdistan iracheno
Centinaia di adolescenti che hanno combattuto nelle fila dello Stato islamico sono detenuti in un carcere che funge anche da centro di riabilitazione e di deradicalizzazione.
“Siamo tutti soldati dell’Isis!”, dichiarano spensierati, allegri, alla fine della quotidiana , interminabile, partita di calcetto al centro di detenzione di Erbil.
Accettano di parlare di tutto, di raccontare tutto: abusi, torture, decapitazioni, stupri…tutto, persino della loro cattura in seguito alla presa di Mossul. Nessuna parola di pentimento, nessun rimorso. Nulla. Le carceri irachene ospitano oltre 4000 djiadisti, molti di essi giovanissimi, alcuni arrivati dall’estero, soprattutto dalla Francia, per combattere nelle fila del califfato di Al-Baghdadi.
Soldati dello Stato islamico di cui l’Irak non sa che fare.
La direttrice del centro di detenzione di Erbil, Diman Mohamed Bayiz, confessa il suo sconforto ai giornalisti:
“Questi ragazzini-soldato sono un fatto completamente nuovo per noi. Ne sono arrivati moltissimi qui dopo la presa di Mossul dell’agosto scorso, catturati dalle forze militari curde che hanno liberato la città dalla morsa dell’Isis.
In Irak esiste da sempre il problema dell’estremismo islamico, ma a questi adolescenti non eravamo preparati e non ci aspettavamo nemmeno che fossero così tanti.
Solo qui a Erbil ne abbiamo 460. Siamo totalmente sopraffatti dalla situazione poiché il centro è pensato per accogliere al massimo 120 detenuti. Nonostante questo, non ci risparmiamo per cercare di aiutare questi ragazzi cui è stato fatto il lavaggio del cervello. Li trattiamo come esseri umani, e questa è già un primo passo.
I programmi di rieducazione sono gestiti da diverse ONG. Si tratta soprattutto di progetti di formazione professionale volti a preparare il reinserimento dei giovani djiadisti in seno alla società. La stessa società che odiano e che vogliono distruggere…”
Funzionario della prigione e membro dell’ONG irachena Public Aid Organisation, Shwan Saben Mustafa condivide con LeFigaro il suo punto di vista sulla questione:
“L’Irak non è assolutamente all’altezza della minaccia djiadista, non abbiamo i mezzi economici, politici e culturali per gestire seriamente il reinserimento di questi giovani. Se da un lato essi sono vittime della propaganda islamica, dall’altro c’è il dato oggettivo della loro estrema pericolosità. La guerra contro lo Stato islamico sembra finita, ma in realtà questo è solo l’inizio.
Nella regione di Erbil ci sono ben 4000 moschee, molte delle quali rette da imam che non fanno altro che gettare benzina sul fuoco e radicalizzare i musulmani. Così, quel che l’Isis perde sul terreno lo riconquista immediatamente negli spiriti e nelle coscienze dei giovani.
La nostra sola speranza sarebbe quella di un vero progetto educativo ma non ne abbiamo i mezzi, non siamo preparati.”
Molti dei giovani detenuti di Erbil sono stati arrestati armi alla mano, dotati di Kalashnikov, coltelli ed esplosivi. Eppure tutti si proclamano innocenti. Tra un match di calcetto e qualche ora di formazione, essi attendono un’ormai prossima liberazione.
Adel ha da poco compiuto 18 anni. Indossa una divisa del PSG e accetta senza alcun complesso di rispondere alle domande dei giornalisti francesi.
Arrestato ne luglio 2016, Adel dichiara di essersi arruolato delle file dello Stato islamico all’età di 15 anni:
“Frequentavo regolarmente la moschea. L’imam ci diceva sempre che la charia e il califfo Al-Baghdadi erano le vie da seguire per un buon musulmano.
Mio padre è un ricco commerciante, io andavo a scuola, non mi mancava niente. Poi, come molti miei coetanei, sono rimasto colpito dagli uomini dell’Isis quando sono entrati in città, ad Hawja.
Ci hanno convocato, ci hanno subito regalato un Kalashnikov a testa, ci hanno insegnato a maneggiare esplosivi, a lottare e a combattere.
Ci hanno fatto assistere alle decapitazioni e alle torture dei cristiani e degli yazidi. Un giorno abbiamo anche catturato degli omosessuali, o presunti tali, e li abbiamo gettati dal tetto del palazzo più alto della città.
Eravamo i re di Hawja! Tutte le ragazze erano ai nostri piedi! Senza parlare delle schiave che arrivavano direttamente da Mossul, per chi poteva comprarle coi soldi. Ovviamente le più belle erano riservate agli ufficiali dell’Isis. Io ricevevo 50 dollari al mese e purtroppo non era abbastanza per comprarsi una bella schiava”.
Tra qualche mese Adel uscirà di prigione dopo una condanna a un anno e tre mesi di reclusione.
Basir, 17 anni, appena uscito dal centro di detenzione dopo una condanna a sei mesi per propaganda djiadista sui social network, è rimasto a Erbil per lavorare nell’officina dove ha seguito la formazione professionale.
“Non facevo che difendere lo Stato islamico! Perché non avrei dovuto? Dopotutto la charia è il fondamento della religione musulmana!
I programmi di deradicalizzazione seguiti in prigione? Parole, parole, tante parole. Tutto qui. Ora mi hanno trovato un lavoro e il giudice mi ha fatto uscire.
Se stringo la mano alle donne? Assolutamente no!”
Nella sala degli interrogatori della prigione di Erbil (che funge anche da quartier generale dell’antiterrorismo iracheno), Mustafa, 17 anni, racconta la sua storia:
“Mi sono arruolato con l’Isis. Dopo poco mi è stato proposto di commettere un attentato suicida. Ho rifiutato dicendo che volevo morire le armi alla mano, in combattimento. Nessuno ha insistito, dopotutto c’erano talmente tanti candidati.
Ho seguito una formazione in tre livelli: legge coranica, preparazione fisica, tiro con la mitragliatrice. Mi hanno dato un kalachnikov e 50 dollari al mese di stipendio.
Per sei mesi ho combattuto in prima linea a Mossul. Ho incontrato moltissimi djadisti stranieri, europei, soprattutto francesi. I francesi erano i più duri, i più crudeli. Non dubitavano mai. Non esitavano mai. Nemmeno dopo i massacri e le torture più orribili.
Io volevo morire martire, ero sicuro che ce l’avrei fatta, voleva andare in paradiso per avere le 72 vergini che mi spettano.
Una volta libero me ne andrò. Non so dove, in Turchia forse, oppure in Europa.”
Nel nord dell’Irak, nel campo di Dohuk, trovano rifugio molte famiglie vittime degli orrori dello Stato islamico, famiglie che hanno perso tutto.
Originari di Sinjar, Nouri, Nashet, Ibrahim e Farhan sono quattro fratelli yézidi, rapiti dai mercenari dell'Isis quando avevano dai 9 ai 13 anni, per diventare schiavi soldato del califfo.
"Ci hanno rapito e portato in un campo d'addestramento vicino a Mossul. Eravamo terrorizzati, Nouri aveva solo 9 anni. Ci hanno picchiato ripetutamente e obbligati a pronunciare la chahada (la professione di fede all'islam) col fucile puntato alla tempia. Ci hanno imposto corsi di corano e impartito un addestramento militare.
Volevano mandarci al fronte e non la smettevano di ripeterci che dovevamo ammazzare la nostra gente e le nostre stesse famiglie. Era orribile.
Dopo qualche mese siamo riusciti a scappare. Tuttavia, ricominciare a vivere per noi è impossibile. Nouri non dorme più, giorno e notte è in preda a raptus di follia, nevrosi, come se avesse sempre le immagini delle esecuzioni davanti agli occhi."
"Quei mostri ci hanno distrutto la vita, hanno distrutto la nostra famiglia e lo Stato non fa nulla!"
Nel campo dove viviamo ci sono loro, quelli che combattevano insieme al califfo!
Nostra figlia Dalal è prigioniera dello Stato islamico da 4 anni!" Urla Moshein mostrandoci una foto della giovane. Vogliono 24000 dollari per liberarla. Non abbiamo questi soldi! E mia figlia resta prigioniera di quegli animali".
Hala e Samia, nella tenda accanto, hanno conosciuto la stessa sorte di Dalal. Rapite nel 2014, sono state vendute a più riprese dagli djiadisti come schiave sessuali.
Per tre anni sono state picchiate e violentate senza sosta. Nel 2017, i loro aguzzini hanno iniziato ad addestrarle per combattere la battaglia di Mossul.
"Ci hanno obbligate a sparare, a lanciare esplosivi", dichiara Hala " io non dicevo nulla, aspettavo solo il momento opportuno per farmi saltare in aria insieme a più djiadisti possibile. Non ci sono riuscita. Una sera si è presentata l'occasione di fuggire e l'ho colta, volevo rivedere la mia famiglia, quel che ne resta almeno."
Convertite a forza di botte e di torture, Hala e Samia non hanno mai rinnegato la loro identità yazida.
Le due sorelle ci parlano dei musulmani iracheni:
"Ci sono molti musulmani qui nei campi, ogni volta che sento l'appello alla preghiera mi si gela il sangue nelle vene. Sento spesso parlare di appello alla convivenza; da parte delle autorità, dicono che dobbiamo imparare a vivere insieme.
Ma io non vedo proprio, dopo tutto questo orrore, come si possa parlare di pace.”
Un interrogativo che tutta l’Europa dovrebbe porsi.
fonti dell’articolo:
1. Les témoignages glaçants des enfants soldats de l’État islamique, N. Chergui et Noël Quidu, LeFigaro, 2 marzo 2018
2. Que faire des enfants soldats de Daesh de retour en France? Jean Chichizola, LeFigaro, 6 juin 2017
Inserito da Angelo il 14/04/2018 22:38:39
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