Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
lto in tv un'ennesima presentazione del libro di Giovanni Floris dedicato alla scuola, il bravo conduttore di La7 dice cose intelligenti sulla responsabilità delle famiglie nel cattivo comportamento dei pargoli nei confronti degli insegnati (ritenuti ormai dalle famiglie e di conseguenza dai pargoli) dei poveri sfigati che trasmettono parole, ovvero roba virtuale sostanzialmente priva di significato economico: non è certo con le parole che si conquista un posto al sole, ragionano questi squinternati. Le parole sono inutili, buone a gettar fumo negli occhi a qualche sprovveduto quando ne capiti l'occasione, ma poiché le parole si imparano fin da piccoli... l'opera della scuola è superflua.
Certo ci sarebbe quel "trascurabile" particolare che riguarda la formulazione del pensiero attraverso le parole, pensiero che, per articolarsi correttamente, dovrebbe essere addestrato attraverso la conoscenza per esempio della letteratura, della filosofia, della storia. Ma anche in questo caso, grazie alla lunga consuetudine a considerare solo il sapere scientifico (matematica, fisica, ecc) degno di esser coltivato in vista di un'applicazione pratica professionale che produca profitto, il sapere che Renzi definì sciaguratamente "umanista" invece di umanistico (errore veniale penserà qualcuno, lapsus linguae, dirà altri, già ma lo scrisse in bell'evidenza su una lavagna che faceva le veci delle sue amate slide, e si è visto come è finito) continua ad essere ritenuto superfluo e soprattutto tale da non necessitare di una figura professionale che lo trasmetta.
Insomma il pensiero corrente, esplicitato o implicito (il più delle volte), è che le materie umanistiche non sono professionalizzanti, chiunque può apprenderne quanto basta per sopravvivere nel mondo del lavoro e della politica, nonché nella società, con quanto imparato alle elementari: ovvero basta saper leggere e scrivere per diventare chiunque vogliamo senza ulteriori sforzi e perdite di tempo dietro a inutili libri che rappresentano la polvere del passato che in quanto tale è morto e sepolto e dunque inutile per il presente e il futuro.
In generale, tenendo presente questo assunto, una biblioteca, o una libreria, viene considerata (e si tratta della migliore delle ipotesi) una specie di cimitero dove i libri sono le lapidi di morti ai quali qualcuno, ancora affezionato, va a far visita devota, o mostra rispettoso omaggio, una faccenda per sentimentali che non hanno molto di meglio da fare, o che, se lo hanno, trovano anche il tempo per il pietoso ossequio. Insomma una faccenda per dilettanti, usato alla maniera antica, coloro che si dilettano nella compulsazione di pagine riempite di parole da rispettabili sognatori che non dovevano occuparsi di mettere insieme il pranzo con la cena, o conquistare il prestigio professionale, o il potere ecc ecc.
D'altra parte è vero che questo trend da tempo viene coltivato anche da chi dovrebbe vedere le cose con maggiore lucidità e responsabilità. Dal Miur (per lo più guidato non a caso da professori provenienti dal mondo degli studi di materie scientifiche, quando addirittura da un ministro in possesso di un scarno diploma di scuola media superiore) provengono, con frequenza degna di miglior causa, continue raccomandazioni allo studio delle scienze esatte, invocando maggiore dedizione per esempio delle studentesse alla matematica prediletta dal genere maschile.
In sintonia con questo sentire si è preferito declinare le materie umanistiche in chiave formalmente scientifica così si parla di scienze umane, scienza della formazione, scienza pedagogica ecc ecc. Senza scomodare i filosofi del linguaggio o linguisti di vecchia scuola come Max Müller, senza ricorrere a Pascoli per il quale la lingua non era un semplice strumento per la composizione poetica, ma era generatrice di poesia basta pensare al vecchio adagio: chi parla male pensa male.
La saggezza popolare sapeva che nello stesso modo in cui l’abito fa il monaco, una lingua correttamente maneggiata genera un pensiero almeno accettabile se non condivisibile. Le parole che noi impieghiamo per comunicare costituiscono un codice condiviso attraverso il quale riusciamo ad intenderci; perciò dicendo per esempio “pane” siamo tutti concordi nel riferirsi all’alimento a base di farina, acqua e lievito cotto in forno. Provate a immaginare se si cominciasse a chiedere il pane e ci vedessimo portare, che so: il formaggio, oppure un bicchiere, o magari anche il copertone di una macchina…
È un paradosso? No, non è un paradosso è solo l’applicazione della scorretta condivisione di un codice che nel caso del pane ci appare assurda e impossibile solo perché si tratta di una parola che, appresa fin dalla tenera età, risulta facilmente condivisa. Poiché non di solo pane vive l’uomo provate ad applicare questa scorretta formulazione del codice verbale a pensieri più complessi, si verificherà la stessa situazione assurda di cui sopra, ma poiché si tratterà di pensieri, di idee, di concetti noi tendiamo a non accorgersene, a non farci caso.
Ieri il Presidente Mattarella parlando alla conferenza State of the Union ha detto: «Bisogna riscoprire l'Europa sottraendoci all'egemonia di particolarismi senza futuro e di una narrativa sovranista pronta a proporre soluzioni tanto seducenti quanto inattuabili, certa comunque di poterne addossare l'impraticabilità all'Unione»
“Una NARRATIVA sovranista”? Ma cosa dice il Presidente? Di cosa sta parlando? Esiste forse un sistema di romanzi sovranisti? Meloni, Salvini ecc sarebbero dunque narratori nel senso che scrivono romanzi sovranisti dando vita ad una NARRATIVA?
Il problema sta nella radice della parola che negli ultimi anni i politici hanno assunto per descrivere particolari modalità di affrontare il discorso politico. Da quando, se non sbaglio, Vendola cominciò ad usare il termine “narrazione” per alludere ad una non ben specificata modalità di comunicazione del discorso politico, siamo stati sepolti da un profluvio di “narrazioni”: dopo i politici hanno cominciato ad usarlo i giornalisti, poi i commentatori, recentemente anche il mio macellaio ha mostrato segni di contagio linguistico e l’ho sentito infilare il termine narrazione per spiegare ad una cliente il processo di macellazione del maiale. Se avrà la fortuna di essere ascoltato da qualche conduttore televisivo in cerca di enfasi linguistica può darsi che la “narrazione della macellazione” abbia una sua discreta fortuna nonostante il bisticcio delle desinenze.
La “narrazione” ormai ci circonda ci soffoca, ci sommerge e quel che è peggio nessuno sa cosa vuol dire veramente; suona bene, fa “fino”, colto e anche à la page e allora ecco la narrazione in bocca a chi non ha mai letto un romanzo, non sa niente di teoria della narrativa, ignora cosa sia la semiotica o la critica strutturalista. Siamo talmente abituati ad usare e sentire usare il termine narrazione che non ci chiediamo neppure cosa voglia dire, se sia usato a proposito o a sproposito, finché un vecchio signore, che probabilmente ha fatto ai suoi tempi anche un buon liceo classico, casca nella trappola di una modernità ignorante che parla male perché pensa male e viceversa, e si adatta al linguaggio corrente, ma trasforma la “narrazione” in “narrativa” combinando un disastro semantico da capogiro e di irresistibile comicità. Peccato non ci sia niente da ridere.
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