Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
c’è dietro il No alle Grandi opere, sbandierato – con un inusuale orgoglio “ideologico” – da Alessandro Di Battista, esule dorato a Puerto Escondido? Da dove nasce l’onda lunga del Movimento Cinque Stelle, che su questi No ha raccolto ampi successi elettorali? Quali forze ed idee sono state assecondate? Più che su un “progetto” di sistema, un ripensamento generale sui modelli e le modalità dello sviluppo economico-sociale , è il “localismo” ad averla fatta da padrone, nelle tante piccole e grandi “vertenze” che hanno interessato decine di opere infrastrutturali, da Nord a Sud. Non c’è solamente la Tav, la linea ferroviaria ad alta velocità italo-francese, o la Tap, il gasdotto trans-adriatico che deve trasportare il gas naturale dalla regione del Mar Caspio alle coste pugliesi. La partita delle infrastrutture interessa il Terzo valico, necessario al sistema portuale ligure, la Gronda autostradale genovese, la Pedemontana lombarda, quella veneta, la linea ferroviaria ad alta velocità Brescia-Padova, tanto per citare le principali opere in cantiere. Il dibattito sui costi-benefici non lascia dubbi. Ora è il caso di andare oltre, evitando di cadere prigionieri delle piccole scaramucce locali, che tanti risultati elettorali hanno portato a qualcuno, ma che lungi dal porsi come un fattore reale di cambiamento, hanno finito per depotenziare gli interessi generali, rendendoli residuali e dunque incapaci di competere seriamente sul piano della crescita del sistema-Paese. Con idee del genere ad uscirne sconfitta è l’idea stessa di Stato, uno Stato che, nella logica contemporanea dei grandi numeri e dei grandi aggregati (territoriali, produttivi, urbani) deve essere deputato a “fare ordine”, a selezionare i micro particolarismi, ad individuare priorità e direttrici di sviluppo piuttosto che assecondare l’egoismo dei territori. Ciò - sia chiaro – non significa sminuire il valore dell’identità locale, a cui gli italiani sono storicamente e culturalmente legati. Non coniugare però queste identità con un più ampio e complesso interesse nazionale, significa mettere a repentaglio la tenuta stessa delle comunità che si dice di volere tutelare e rappresentare. Significa favorire le microconflittualità, chiudendosi, ognuno, nel proprio “orticello”. Le “radici” di una grande realtà nazionale, qual è l’Italia, non sono quelle delle tante, pur gloriose comunità locali, quanto soprattutto quelle che ci vengono dalla consapevolezza “patriottica” e “sovranista” di essere partecipi di un comune, più grande destino. Scriveva, con lucida sintesi, più di settant’anni fa, Ezra Pound: “Il localismo ? Va bene quando localismo non significa conservazione della vanità locale, della stupidità locale, della mano morta locale, della superstizione locale”. Di tutto, possiamo ben dire oggi, l’ Italia ha bisogno, fuori che di un localismo che significhi e magari coltivi conservazione, vanità, stupidità, mano morta, superstizione. Un localismo di questa fatta farebbe solo dannni.
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