Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Massimo Bontempelli
«La Ronda» e «900», due riviste d’avanguardia della letteratura e politica italiane, non si incontrano. La prima esaurisce le uscite qualche anno prima della fondazione della seconda. Eppure, le rispettive culture di cui sono foriere avranno modo di incrociarsi e di incappare l’una sull’altra. A tratti in sintonia, altre in completo disaccordo sia in ambito culturale che politico, la storia degli intellettuali rondisti e di quelli novecentisti è la storia di un intrigante balletto di convergenze e divergenze.
Tutto inizia nel l919, quando esce il primo numero de «La Ronda». Il futuro novecentista Massimo Bontempelli (http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=81&det=4870) e la rivista s’intendono subito. O almeno così pare. Lo scrittore comense accoglie favorevolmente l’uscita della rivista con un corsivo ricco di elogi[1].
Secondo il biografo di Bontempelli, Fernando Tempesti, a omaggiare la fondazione de «La Ronda» sono semplici parole di circostanza[2].
E infatti di lì a pochi anni «900», rivista dei novecentisti, rompe con lo stile tipicamente rondista. Come ricorda Falqui:
«Se la Ronda (dal ’19 al ’22) s’era battuta più per la prosa che per la poesia, il 900 (dal ’26 al ’29) si batté più per la narrativa che per la lirica»[3].
Insomma, la differenza fra «900» e «La Ronda» è - possiamo dire - sottile, ma avvertita come abissale da chi alle due riviste lavora. Il clima così si guasta e lo scontro tra novecentisti ed ex rondisti è inevitabile[4].
Il programma novecentista, infatti, parla chiaro. A differenza di quello rondista, vuole portare in Italia l’esperienza delle avanguardie europee più vitali. Nonché combattere principalmente il Romanticismo e l’Ottocento.
Tant’è che la letteratura novecentista vuole sopprimere, una volta per tutte, «il poverismo che ha inquinato parte della letteratura e tutta la scuola italiana dal Manzoni in poi» perché rappresenta «un pericolo continuo e insidiosissimo per la morale pubblica e privata. È la morale delle languide credenze democratiche».
L’antidemocraticità tipica del gruppo novecentista è eredità delle avanguardie che si muovono come pesci nell’acqua dell’Italia giolittiana. Riflette cioè i sentimenti che Emilio Gentile definisce del “Radicalismo nazionale” e che sono il germe dal quale sboccia il fascismo. Fascismo che è spesso interpretato come una risposta alla "crisi della democrazia" palesata in Europa dagli ultimi decenni dell'Ottocento[5].
Il “radicalismo nazionale” rappresenta una corrente di pensiero che afferma il primato della nazione come valore supremo della vita collettiva e come immutabile orizzonte ideale; e che, proprio per questo, esalta le forze spirituali – le uniche capaci di condurre l’Italia verso grandi imprese – disprezzando al contempo ogni forma di razionalismo positivista.
Il “radicalismo nazionale” intende costruire uno Stato nuovo, concepito come una comunità cementata da una fede condivisa e guidata da un’aristocrazia di giovani: solo le nuove generazioni, infatti, saranno capaci di concludere la rivoluzione spirituale iniziata col Risorgimento, attraverso la rigenerazione degli italiani (un processo ormai non più procrastinabile), per portare il Paese all’avanguardia della civiltà moderna[6].
Durante i primi anni del Novecento, il mito della rigenerazione nazionale è ripreso dai movimenti che sognano un’Italia finalmente egemone nella costruzione della civiltà moderna. Proprio per questo motivo tali gruppi si ribellano contro l’Italietta liberale. Il movimento nazionalista-imperialista, il gruppo degli intellettuali della Voce, il futurismo, le varie correnti del radicalismo nazionale condividono il mito della rigenerazione e lo trasformano in un progetto di rivoluzione totale. E questo, a sua volta, contempla come premessa ineludibile l’abbattimento del regime liberale, cioè di quei governi “più o meno giolittiani” la cui mediocre “austerità” borghese appare inconciliabile con gli ideali di grandezza e modernizzazione vagheggiati dai patrioti del Risorgimento[7].
E’ sulla scia di questa continuità politica tra i radicalisti nazionali e i fascisti ma più precisamente i novecentisti che «900» guarda con favore il Futurismo, proprio quando la maggior parte dei settori intellettuali fascisti lo criticano o addirittura lo avversano. Certo, Bontempelli e i suoi ben ne riconoscono i limiti.
A partire dal suo acceso lirismo (Bontempelli dirà a questo proposito che non bisogna guardare al lirismo puro, bensì all’opera come «fatta e in sé vivente»[8]e dalla smania formalista quasi feticista che lo porta a trascurare la sostanza. In altre parole, per i novecentisti la rivoluzione futurista è solo nei contenuti, ma è pur sempre rivoluzione.
Non è un caso quindi che spesso e volentieri i nemici dei futuristi sono anche nemici dei novecentisti. A partire proprio dagli intellettuali de «La Ronda», cui «900» prima si oppone e poi ne diventa accesa avversaria.
I rondisti caricano senza pietà Marinetti e i suoi seguaci, definiti distruttori letterari. E puntano il dito contro gli intellettuali compromessi che hanno dimenticato la “schiettezza disinteressata”, tratto principale di uno studioso degno di questo nome.
Ecco quindi che sul primo numero de «La Ronda» dell’aprile 1919 compare un Prologo in tre parti compilato da Vincenzo Cardarelli (http://totalita.it/articolo.asp?articolo=763&categoria=1&sezione=7&rubrica=7) i cui punti programmatici sono fondamentalmente tre:
«a) simpatia e preferenze per il passato, culto dei classici e humanitas che consentono di sentirsi uomini;
b) impegni linguistici e stilistici come il leggere e lo scrivere elegante non in senso formale ma come lucida e leopardiana trasparenza dei moti dell’animo;
c) sincera fedeltà alla tradizione senza perdere di vista il livello europeo delle letterature straniere, mettersi in regola coi tempi, senza però spatriarsi.»[9].
«900», da parte sua, aborrisce «La Ronda» perché, ripudiando le avanguardie dell’anteguerra e considerandole «ormai rancide, han creduto di tornare indietro, e si sono messi a fare dell’accademia, dell’arcadia, del neoclassico e simili funebrità». Allo stesso tempo, i rondisti non si sarebbero accorti che il pericolo più grave per la nostra letteratura «non è di mancare di eleganza, ma di vita; non di raffinatezza, ma di immaginazione; non di squisitezza, ma di comunicabilità». Basta quindi col vittimismo ottocentesco e la mestizia, il disimpegno politico e l’estetismo senz’anima della “bella pagina”.
La polemica novecentesca non si riduce a quella diretta a «La Ronda» e anzi diventa generale. Si concretizza in un dottrina appassionatamente
«antiaccademica, antiformalistica, antipedantesca, vicina alla vita vissuta (giornalismo, romanzo d’appendice, pittura illustrativa, musica da ballo), ma, nello stesso tempo, piena di estro inventivo [...] assurda e imprevedibile come una favola».
Dottrina che si esprime in un’arte che crei un connubio di fantasia e realtà.
«L’immaginazione non è il fiorire dell’arbitrario e molto meno dell’impreciso. Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta».
Ecco quindi il “realismo magico”, la celebre invenzione di Massimo Bontempelli che trova però i suoi precedenti in alcuni pittori del Quattrocento come Masaccio e Piero della Francesca «per quel loro realismo preciso, avvolto in un’atmosfera di stupore lucido». Realismo che paradossalmente si ricollega al Surrealismo, ma a patto che per ciò si intenda non «il surreale puro (che non vuol dir niente), ma nello scoprire e indicare il surreale nel reale».
Un’impostazione del genere non può che suscitare vivaci polemiche. A volte scatenate.
Vincenzo Cardarelli, fondatore assieme a pochi altri de «La Ronda» ben presto oppone al programma novecentista il pensiero degli ex rondisti:
«In fatto di gusti noi siamo ancora nell’arte paesana e alla ricerca del ribobolo canagliesco. Oppure a un europeismo da strapazzo, limitato alle zone inferiori della letteratura internazionale, che puzza di romanzi stranieri mal tradotti [...]. Una prova di quanto certi movimenti siano poco originali si ha dalla loro intempestività e contraddizione non superficiale ma sostanziale, col tempo. Esempio, l’europeismo dei cosiddetti novecentisti. Da venti anni non si fa altro in Italia, in filosofia, in arte, in letteratura. E ci pareva che fosse una partita chiusa e di poterne essere arcistucchi. Qualcuno di noi s’illudeva perfino che nella qualità di buon italiano fosser ormai inclusa e sorpassata quella di buon europeo. Ci fu un tempo che noi sapevamo Nietzsche a memoria. Poi lo lasciammo per prendere Leopardi. Alla vecchia contrapposizione dell’Europa all’Italia, rispondemmo contrapponendo l’Italia a se stessa: e ci sembrò il solo modo di essere moderni e universali»[10].
Il periodico letterario «La Ronda» è pubblicato dall’aprile 1919 al novembre 1922 e comprende un numero straordinario del dicembre 1923. Il comitato redazionale è composto da Cardarelli, in seguito direttore della rivista assieme a Aurelio E. Saffi, e un gruppo piuttosto eterogeneo di intellettuali tra cui Cecchi, Baccelli, Barilli, Baldini, Montano e Saffi. «La Ronda» si colloca su un piano internazionalista. Apre al panorama culturale europeo e attraverso Cecchi, vero esperto della materia, strizza l’occhio alla letteratura inglese soprattutto ottocentesca e novecentesca[11].
«La Ronda» sembra davvero anticipare gli argomenti e gli approcci letterari di «900». Così infatti si descrive:
«Ci sostiene la sicurezza di avere un modo nostro di leggere e di rimettere in vita ciò che sembra morto. Il nostro classicismo è metaforico e a doppio fondo. Seguitare a servirci con fiducia di uno stile defunto non vorrà dire per noi altro che realizzare delle nuove eleganze, perpetuare insomma, insensibilmente, la tradizione della nostra arte».
E ancora:
«Ritardata la nostra modernità di più d’un mezzo secolo, a causa di avvenimenti storici che non è il caso di discutere, e rifatta l’Italia grettamente nazionalistica e provinciale nelle arti, la nostra letteratura intraducibile e poco valida ad attestare della nostra universalità tra le nazioni contemporanee, forse è giunto per noi il momento di uscire e di farci intendere in questo contagioso crepuscolo della civiltà moderna europea»[12].
«La Ronda», proprio come farà «900», si riappropria della dimensione “universale”, anche se più propriamente europea, per uscire dall’isolamento provinciale nel quale si trova ora la cultura italiana.
È così che la rivista apre la redazione alla letteratura straniera e, guarda caso, sul primo numero di «900» appaiono firme rondiste come quelle di Emilio Cecchi o, sul secondo numero, quella di Bruno Barilli[13].
Novecentisti e rondisti. Nemici, amici o separati in casa? Sposati in case diverse, forse.[1] in F. Tempesti, Massimo Bontempelli, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 14. M. Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura e con introduzione di Ruggiero Jacobbi, Vallecchi, Firenze, 1974, p. 95.
[2] F. Tempesti, Massimo Bontempelli, cit., p. 52.
[3] E. Falqui, Il futurismo. Il novecentismo, ERI, Torino, 1953, p. 100.
[4] in F. Tempesti, Massimo Bontempelli, cit., p. 15.
[5] E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 3-28. Il "radicalismo nazionale" italiano che i novecentisti ricevono in eredità trae le sue origini dal mito mazziniano del Risorgimento come rivoluzione incompiuta e tradita. Un mito che però subisce qualche metamorfosi. Da critica viscerale al sistema liberale e specificamente giolittiano (considerato trasformista, corrotto e privo di ideali) diventa azione violenta contro Stato liberale, il Parlamento, e le sue istituzioni. E’ un attacco che proviene sia da destra che da sinistra (pensiamo a Oriani, a D'Annunzio, a Gobetti, a Gramsci, ma anche ai futuristi e ai nazionalisti corradiniani) e che è rinvigorito in modo decisivo dalla Grande Guerra, e che mina pericolosamente la democrazia.
[6] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma, 2001, p. 97. I. Buttignon, Compagno Duce. Fatti, personaggi, idee e contraddizioni del fascismo di sinistra, Hobby and Work Publishing, Milano, 2010, pp. 141-142
[7] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 243.
[8] M. Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura e con introduzione di Ruggiero Jacobbi, Vallecchi, Firenze, 1974., p. 15.
[9] C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 3711-3712.
[10] Ibidem, p. 3712.
[11] P. Gubert, Ipotesi per una fonte di Massimo Bontempelli, in “Otto/Novecento”, a. XXIV, n. 3, settembre/dicembre 2000, pp. 55-74.
[12] V. Cardarelli, Prologo in tre parti, in “La Ronda”, I, 1919, p. 6.
[13] P. Gubert, Ipotesi per una fonte di Massimo Bontempelli, in “Otto/Novecento”, a. XXIV, n. 3, settembre/dicembre 2000, pp. 55-74.
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