Libri e tradimenti

Scurati, il romanzo (?) su Mussolini, gli errori storici e non solo

Galli della Loggia denuncia sul Corriere i troppi errori marchiani di M. il figlio del secolo. E allora ci chiediamo qual è lo statuto del romanzo storico, su cosa si basa il patto fra lo scrittore e il lettore?

di Simonetta  Bartolini

Scurati, il romanzo (?) su Mussolini, gli errori storici e non solo

Nonostante la sede prestigiosa, il giorno domenicale di pubblicazione, nonchè la firma dell'autore,  è possibile che l'articolo sul Corriere, di Ernesto Galli Della Loggia, dedicato all'ultimo – già celebrato e acquistato, a vedere le classifiche – libro di Scurati, M il figlio del secolo, passi sotto un assoluto e guardingo silenzio solidale con la superficialità. 

Galli della Loggia fa un'operazione inusuale, fuori moda, direi quasi di retroguardia e forse un po' reazionaria: recensisce un libro dopo averlo letto interamente, e attentamente! 

Capita che quando uno storico legge un romanzo storico inorridisca, anzi il più delle volte gli studiosi di Storia tendono a disinteressarsi dei romanzi che assumono la loro materia come soggetto, sostanzialmente considerano tali letture una perdita di tempo, l'elaborazione romanzesca della Storia non li attrae, preferiscono i documenti, per quanto anche i romanzi vengono considerati da alcuni studiosi fonti secondarie non prive di interesse, ma raramente questo accade quando si tratta di libri di letteratura contemporanea.

Torniamo a Galli della Loggia, lo storico legge il romanzo di Scurati rassicurato dalla dichiarazione dell'autore «Mi sono assegnato un criterio rigidissimo, nessun personaggio, accadimento, discorso o frasi narrati nel libro sono liberamente inventati» – in effetti Scurati non inventa discorsi e personaggi, ma forse tratta un po' liberamente alcuni fatti storici "minori" (telescriventi e numero di morti attrbuibili a Salandra, per esempio)– e si può immaginare o sconcerto dello storico quando incontra svarioni imperdonabili anche ad uno studente di liceo.

Leggete l'articolo che riproduciamo di seguito tratto dal Corsera di domenica 14 ottobre e vedrete di cosa si tratta.

Ciò di cui Galli della Loggia non si occupa, ovviamente, è il problema che il romanzo di Scurati pone ai lettori e agli studiosi di letteratura. A noi viene invece da porci qualche domanda in proposito:

1° Se un romanzo storico non è affidabile dal punto di vista dei dati riportati che romanzo storico è?

2° Se Scurati si propone di rappresentare, in un'opera dall'andamento narrativo, quel che già gli storici hanno già ampiamente scritto (magari in forme più "noiose" e meno fluenti dal punto di vista della scrittura) senza che intervenga alcun elemento romanzesco, ovvero inventato (ricordate la vecchia, ma ancor valida definizione manzoniana «misto di storia e di invenzione» seppure variamente interpretabile in chiave  moderna), che romanzo storico è?

3° Possiamo legittimamente pensare che l'invenzione necessaria al romanzo, oppure diciamo più genericamente il romanzesco, sia attribuibile solo agli elemente qualificativi dei fatti e dei personaggi? Ovvero basta a fare di una narrazione a sfondo storico un romanzo, se l'elemento romanzesco è limitato agli aggettivi qualificativi attribuiti a fatti e personaggi o alla loro rappresentazione (cito a memora questa immagine riguardane Mussolini che sulla spiaggia di Senigallia stava -scrive Scurati– con le mani artigliate ai fianchi e il pube protruso in avanti ad oltraggiare le bagnatni!; e non siamo ancora al 1920!)?

4° Scurati dichiara di voler proporre un punto di vista diverso riguardo la fascismo e questo ha fatto ingolosire tutti i nauseati dal politicamente corretto, dell'antifascismo ad oltranza, della damnatio memoriae in servizio permanente effettivo. Purtroppo a questi benemeriti desiderosi di equità interpretativa non viene offerto niente di nuovo, o di meglio, rispetto a quello che già non esista sul mercanto. Però va detto che Scurati e il suo editore scelgono una via furba per vendere il libro: il soggetto, Mussolini e il fascismo; la copertina con la grande M in puro stile fascista destinata ad attirare gli orfani della correttezza storica, nonché i nostalgici di un tempo passato, e gli appassionati (esistono anche quelli, non sono fascisti, né ideologicamente compromessi),  garantiscono sicuro successo sul mercato. D'altra parte le 800 pagine mettono al sicuro da una lettura completa (bisogna prendere le ferie per leggerselo) da parte dei critici, e una lettura scarsamente sorvegliata da parte del lettore comune, il quale peraltro ha tutte ragioni di immaginare che il "patto" con lui che lo scrittore stipula al momento della pubblicazione, in forza anche della notorietà dell'autore nonché del suo profilo accademico, non venga tradito.


Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della sera» 14 ottobre 2018

Voglio sperare che ancor oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato.

Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali.

 Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, «porta sulla coscienza sei milioni di morti» (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci «un politologo», avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a «Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede» (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura. O forse no, chissà.

Infatti tutti  gli svarioni citati (ce ne sarebbero altri minori, ma non mi sembra il caso di pignoleggiare) fanno bella mostra di sé nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani editore, da settimane in testa alle classifiche delle vendite (rispettivamente alle pagine: 199, 537 e 784, 12, 837, 835, 498 e 571, 601, 610).Che dire? Solo un paio di osservazioni. La prima è la constatazione, ancora una volta, della devastante mancanza di editing nella maggior parte dell’editoria italiana. In pratica, se tanto mi dà tanto, si deve credere che basti avere un minimo di nome per po-ter andare con un testo in mano da Bompiani (ma lo stesso accadrebbe, sono sicuro, con molte altre case editrici) e vedersi pubblicata qualsiasi castroneria, perché non c’è neppure uno che dia un’occhiata preliminare. Anche questo mi pare un sintomo, piccolo ma significativo, della decadenza italiana. Del modo raffazzonato con cui da noi si è ormai soliti fare troppe cose. La seconda osservazione riguarda la critica, cioè i numerosi recensori del libro. Come è mai possibile, mi domando, che nessuno (sono pronto a ricredermi se sbaglio, ma non credo) abbia notato neppure di sfuggita degli svarioni così marchiani?

Le risposte possibili sono due. O bisogna pensare che alle recensioni plebiscitariamente favorevoli, spesso entusiastiche, in realtà non abbia corrisposto l’effettiva e completa lettura del testo, ovvero che chi ne ha parlato non abbia notato gli svarioni di cui sopra apparendogli questi insignificanti o perché condivideva con il suo autore il medesimo livello di conoscenza della storia patria. In entrambi i casi un esempio non proprio esaltante, anche qui, di quale Paese sia l’Italia attuale.

Infine c’è il problema Scurati. Laureato in filosofia e docente universitario, dal quale uno non si aspetterebbe certo la disinvoltura, chiamiamola così, mostrata in queste pagine. Tanto più che lo stesso ci ha tenuto a dichiarare in un’ intervista: «Mi sono assegnato un criterio rigidissimo, nessun personaggio, accadimento, discorso o frasi narrati nel libro sono liberamente inventati». Per poi aggiungere: «L’antifascismo non regge più ai tempi nuovi (…) va ripensato su nuove basi.

Raccontare il fascismo, per la prima volta in un romanzo attraverso i fascisti e senza pregiudiziali ideologiche, è il mio contributo alla rifondazione dell’antifascismo».

Già, caro Scurati: ma c’è modo e modo di «ripensare» e di «rifondare». Se il nuovo antifascismo è questo qui, allora davvero si è tentati di dire — e se lo dice uno come me può crederci — «Ridateci quello di prima!». Che almeno sul piano delle date e delle citazioni aveva le carte in regole.

 

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