Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
'altro ha ragione Lucifero, alias John Milton, quando ne L’Avvocato del Diavolo, il film di Taylor Hackford del 1997 con un grandissimo Al Pacino nella parte dell’angelo ribelle, dice ghignante: «La vanità è decisamente il mio peccato preferito».
Chi di noi non è vanitoso? No dai, non ditelo, non ci credo. Lo siamo tutti, soprattutto chi – io per primo – ha ambizioni artistiche. se scrivi, dipingi, reciti o suoni, sei necessariamente vanitoso, poi che lo si sia in misura minore, accettabile o patologica questa è un’altra storia. Ma proprio questo è il punto, ovvero quando la “vanità” da “peccato” e dunque attinente al campo dell’Etica, si trasferisce per suo eccesso nell’ambito della malattia mentale, del disturbo sociopatico che porta alcuni – non molti forse ma pur sempre troppi – sull’orlo, o anche un poco oltre, della schizofrenia.
Eccoli che si agitano forsennatamente ogni giorno per scrivere i loro pensieri sul diario personale di Facebook, preoccupati e in crisi d’astinenza se non hanno i bramati “like” che danno un senso alla loro altrimenti vacua esistenza. Sono quelli che s’inventano una loro realtà parallela, dove sono perennemente vincenti, svettano in cima alle classifiche, dichiarano ogni istante che stanno facendo questo o quell’0altro, scrivono libri immortali e imprescindibili, necessari avvisandoci di essere alla stesura del primo capitolo. Sono malati in realtà, e non “d’infanzia e di ricordi” come lo era Sergej Esenin, ma di quella sempre più frequente forma di malattia compulsiva da “social” che è il bisogno angosciante di avere “follower”, di essere considerati. Ma poi, considerati da chi?
Da altri mediocri che ti osannano per le banalità che dici o che scrivi? Posseduti dal desiderio di avere una corte propria, loro già “vil razza dannata” di cortigiani repressi, in una piramide di poveri in spirito che soltanto la nostra epoca poteva produrre.
La Vanitas degli antichi era ben altro, un peccato sublime misto di orgoglio, sapienza, ironia e distacco dalle cose di questo mondo e la si poneva sugli altari in forma di teschio o di candela dalla flebile fiammella. Aveva allora un suo fascino, la vanità, perché l’uomo ricordava che “del doman non c’è certezza”, che “tempus fugit” e “in pulvis reverteris”.
Oggi no, oggi la vanità dell’Ecclesiaste non esiste più, sostituita dalla miserabile cupidigia dell’arrivismo senza né qualità né talento di una genìa di mediocri, illusi dal loro riflesso in uno specchio deformante che li fa apparire grandi in un vuoto desolante collegato in fibra ottica al loro ego.
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